Uscito in Italia a febbraio, l’ultimo film di Paolo Genovese ha ricevuto un’enorme attenzione mediatica, incassato oltre 16 milioni di euro al botteghino e fatto il pieno di nomination ai David di Donatello che verranno assegnati lunedì 18.
In questi giorni il regista è a New York dove Perfetti sconosciuti è l’unico film italiano in concorso al Tribeca Film Festival dove viene per la prima volta presentato all’estero. Poi a maggio sarà a Cannes dove Medusa, che lo distribuisce, si aspetta di riuscire a piazzarlo sui mercati internazionali. Il film infatti ha già suscitato molto interesse, sia per la distribuzione all’estero che per possibili remake. Non è escluso quindi che presto ne vedremo una versione americana. Intanto al Tribeca tutte le proiezioni sono sold out e la prima è stata un successo.
Perfetti sconosciuti è una storia semplice e complessa al tempo stesso che mescola i toni da commedia con temi impegnati e con un ritratto generazionale di una borghesia italiana irrisolta. Girato quasi per intero in una stanza, racconta di un gruppo di sette amici di lunga data che, durante una cena, decidono di fare un gioco: ognuno mette il telefonino sul tavolo e per tutta la sera ogni messaggio o chiamata sarà letto e ascoltato insieme. Ognuno di loro, però, ha qualcosa da nascondere o qualcosa da rivelare e quella scatola nera che è il telefonino sarà causa e pretesto per mettere in discussione relazioni, amicizie e valori.
Romano, laureato in economia, prima di dedicarsi a tempo pieno al cinema, Paolo Genovese ha lavorato molto in pubblicità e ha diretto più di trecento spot con cui ha vinto diversi premi. Strappandogli del tempo alle sue peregrinazioni nell’amata New York, lo abbiamo incontrato in un hotel del Triangle Below Canal Street e abbiamo chiacchierato del suo film, del suo lavoro, di cinema italiano e di New York.
Il tuo film ha ricevuto molta attenzione da parte dei media. Secondo te perché? Cosa colpisce di questa storia?
“Credo prima di tutto il tema che evidentemente ha toccato qualche corda dell’animo umano perché se ne parla dovunque, dai social al supermercato; ha scatenato un dibattito e una voglia di parlare di questa cosa del telefonino come luogo dei segreti. È come se l’evento mediatico avesse liberato la voglia di parlare della nostra vita segreta”.
Quello dell’impatto delle nuove tecnologie sulla nostra vita privata sta diventando un po’ un filone cinematografico. Penso a Black Mirror, per esempio. Tu ti rifai o ti sei ispirato a qualcuno o qualcosa in particolare?
“In realtà per me la tecnologia è semplicemente un pretesto per parlare dell’animo umano. Il tema principale è quanto poco conosciamo le persone che ci stanno vicino. Ed è un tema universale. Poi, oggi abbiamo modo di scoprire quanto poco le conosciamo grazie al cellulare: nel momento in cui mettiamo tutto il nostro io dentro un contenitore, improvvisamente diventiamo vulnerabili perché quel contenitore è frangibile. Prima le nostre paure e i nostri segreti li nascondevamo dentro il nostro cervello, non c’era un posto dove metterli. Oggi c’è un posto, una scatola”.
Questo pensiero rispecchia una tua personale visione delle tecnologie come qualcosa di inquietante, pericoloso?
“No, non ho voluto dire che le tecnologie rappresentano un pericolo, ma ho voluto rappresentare un dato di fatto, oggettivo. L’unica cosa che oggi chiunque ha sempre appresso è il cellulare. Non voglio demonizzarlo. Il progresso cambia la vita, ovvio, ma di qualsiasi progresso e tecnologia si può fare un uso fisiologico o un uso patologico. Quello fisiologico, nel caso del telefonino, è l’informazione: sapere cosa ci succede intorno ci rende più liberi. Un uso patologico invece può provocare addirittura dei cambiamenti radicali nel modo in cui ti relazioni alle persone o può creare dipendenza”.
I vari personaggi hanno tutti qualcosa da nascondere. L’unica che ne esce pulita è Bianca, interpretata da Alba Rohrwacher. Ed è la stessa che poi, più in là nel film, dice di non aver mai creduto al matrimonio, dice che non le importava niente di sposarsi. C’è un discorso sulla crisi della famiglia tradizionale? Rispecchia una tua visione?

“No, l’idea era raccontare in maniera più ampia possibile i possibili segreti e relazioni in tutte le diverse varianti umane. Non credo che ci sia qualcuno che ne esce pulito e qualcuno no. Anche il personaggio interpretato da Marco Giallini ne esce bene. Battiston alla fine ha un segreto ma è segreto perché la società non ci permette di rivelare tutto. E anche i personaggi più negativi non vengono giudicati ma solo messi in scena e rappresentati con diverse gradazioni di segreti o malefatte. Ma poi sta al pubblico farsi la propria idea. Non ci sono i completamente cattivi e i completamente buoni. Sta a noi capirne e/o giustificarne i comportamenti. Bianca si è fatta coinvolgere in maniera così profonda ma la famiglia non era la sua ambizione. È un semplice modo di raccontare una donna che ha fatto delle scelte importanti solo per amore”.
Ci dici una cosa positiva e una negativa del lavorare con ognuno dei sette attori del tuo cast?

“Marco Giallini riesce a dare una umanità incredibile ai personaggi che interpreta. Valerio Mastandrea trovo invece che riesca a dare tante sfumature. Giuseppe Battiston è di una bravura e un’energia tale che diventa davvero un rifermento sul set. Edoardo Leo in questo film ha avuto la capacità di cambiare rispetto ai personaggi che ha fatto in passato e questo secondo me per un attore è fondamentale: non fare solo i personaggi che ti vengono istintivamente bene. Alba, sembra scontato, è di una bravura incredibile, cura ogni piccolissimo dettaglio dei personaggi che interpreta entrando in un’immedesimazione incredibile. Mentre montavo le sue parti, nei passaggi più drammatici, sentivo un battito che pensavo fosse un disturbo e invece era il microfono messo sul petto e il cuore che le batteva forte. Anna Foglietta credo sia un’attrice di commedia straordinaria con grande capacità di emozionare e far ridere al tempo stesso: è veramente merce rara. Kasia [Smutniak] riesce a dare ai personaggi che interpreta delle sfaccettature molto fuori dagli schemi e dall’ordinario. Crea un personaggio che non abbiamo già visto. Per quanto riguarda i difetti sarebbe difficile, ma te ne dico uno collettivo che vale per tutti su questo film: un po’ per la scena, un po’ per i rapporti di amicizia di lunga data tra gli attori, è stato un set molto indisciplinato, caotico. Però ho lasciato fare e in questo film credo sia servito perché si è creata la sensazione di un vero gruppo di amici”.
Da un certo punto in poi il tuo lavoro sembra essersi spostato sempre più verso il dramma borghese. C’è una volontà, un pensiero dietro questa scelta?
“Rifiuto l’idea di fare film inserendosi dentro un sistema. Io faccio ancora questo lavoro perché mi piace raccontare storie. E qualunque storia in un periodo della mia vita avessi voglia di raccontare lo farei, fosse anche un cartone animato. Ho fatto un dramma borghese, ho fatto una commedia, ho fatto un film generazionale. C’è un denominatore comune: il film deve emozionarmi. Un film d’azione difficilmente riuscirei a farlo”.
E cosa ti emoziona?
“I rapporti umani, le persone. Mi piace raccontare le fragilità, le persone che cadono e si rialzano, quelle che hanno un sogno, non i potenti, ma quelli che hanno molte sfaccettature. L’emozione è l’elemento comune. Poi il resto dipende molto dal momento. Non so che tipo di film sarà il prossimo, se parlerà di famiglia, società o che…”.
La tua esperienza in pubblicità ritorna nel tuo lavoro come regista cinematografico? Ti è utile?

“Con i miei lavori precedenti ho girato il mondo e conosciuto moltissima gente. Credo che mi sia servito soprattuto perché per raccontare storie devi aver vissuto storie e incontrato persone. Poi ovviamente la pubblicità è stata per me un modo per imparare molto bene la parte tecnica, perché ho avuto modo di utilizzare qualsiasi tipo di macchinario e girare in tutte le parti del mondo, ma la tecnica non è così importante in questo mestiere. Credo che la mia esperienza precedente mi sia servita invece soprattutto per la sintesi e la centralità dell’idea. La buona comunicazione ha sempre un’idea molto forte al centro. Io cerco sempre un’idea forte per raccontare l’idea del film. La tematica è difficile che sia del tutto nuova, ma possiamo essere originali nel modo in cui la raccontiamo. Come in questo caso: il tema dei segreti non è certo nuovo, ma è raccontato attraverso il pretesto del telefonino. Oppure, in Una famiglia perfetta, il tema della famiglia viene affrontato attraverso un personaggi che affitta una famiglia, quindi crea una situazione famigliare artificiale. Oppure in Immaturi c’è il film generazionale, ma questa generazione viene raccontata attraverso il rimandare dei quarantenni sui banchi di scuola”.
È la prima volta al Tribeca? Come ti sembra questo festival?
“È la prima volta che vengo in concorso, sì. È un festival affascinante. La sensazione immediata è quella di un enorme interesse e centralità al film. Sembra scontato, ma non è così: nei festival ci sono i film, ma ci sono sempre anche tante altre cose che spesso diventano anche più importanti dei film stessi. Qui invece sembra che il film sia tutto. Per esempio, alla prima di Perfetti sconosciuti c’era, inginocchiata a fianco a me, una con un microfono. Non avevo capito cosa facesse. Dopo cinque minuti dall’inizio della proiezione, in contatto con la cabina di proiezione, lei mi chiedeva se tutto andava bene, se il volume era giusto, eccetera. Mi ha colpito molto l’attenzione a dei dettagli che però non sono dettagli: possono rovinare la proiezione. Non mi era capitato mai di avere una persona apposta che deve assicurarsi che il film venga proiettato come tu lo hai pensato e girato”.
Ti sembra ci sia attenzione per il cinema italiano?
“Ahimè sì”.
Ahimè?
“Sì, perché ne esportiamo così poco e invece ci sarebbe così tanta richiesta. Io giro tanto per i festival e vedo che c’è molta attenzione per il cinema italiano. I nostri film sono apprezzati, amati, c’è sempre fila per vederli, fanno sempre il pienone. Ahimè, perché quindi il fatto di portarne così poco all’estero dispiace. Soprattutto la commedia viene molto apprezzata. Credo che all’estero apprezzino la nostra commedia più che in Italia. Le danno un’autorevolezza che noi non le riconosciamo. Non è un caso che, a parte il film di Sorrentino, gli altri due Oscar italiani, Mediterraneo e La vita è bella, sono stati due commedie. Credo piaccia questo modo di raccontare, tipico della commedia all’italiana, che mescola divertimento e contenuti”.
Il tuo film secondo te è italiano? E se sì, in che modo lo è?
“Il dilemma del film italiano e internazionale è sempre lo stesso: i film sono internazionali non perché girati all’estero o con attori stranieri eccetera ma nel momento in cui vengono capiti a livello mondiale. Quanto più il tuo film è italiano ma riesce a essere capito all’estero, tanto più è internazionale. Questo è un film profondamente italiano ma che viene facilmente decodificato fuori”.
In cosa è profondamente italiano?

“Nel modo di raccontare il tema. Il tema in sé poteva essere internazionale, l’italianità è data dal modo: innanzitutto la tavola che è il centro della storia, poi il calore e l’informalità dei rapporti tra i personaggi. Io mi riconosco in quei sette, nel loro modo caloroso di avere a che fare gli uni con gli altri, che non è né la macchietta con cui a volte vengono presentati gli italiani, ma nemmeno c’è la freddezza e il distacco. E poi credo che proprio il concetto del gruppo di amici, degli amici di vecchia data, sia molto italiano: è credibile rispetto al paese in cui è ambientata la storia”.
I sette personaggi sono molto eterogenei per lavori e professioni che svolgono. Il che salta agli occhi. Come mai?
“Credo sia credibile che in gruppi di amici che si conoscono da sempre ci sia questa eterogeneità. In Italia siamo più stanziali, tendiamo a rimanere nelle città in cui siamo cresciuti e quindi conserviamo gli amici di scuola che ci portiamo dietro negli anni. Questo è un fatto molto italiano. E la credibilità del gruppo misto deriva dal fatto che le radici sono antiche nel tempo, nella scuola, dopo la quale ognuno prende strade diverse”.
Quindi non riflette un momento sociale italiano specifico?
“Sì, era anche un modo per raccontare un’eterogeneità che è frutto di uno specifico momento sociale e politico del paese. Però è anche la questione delle radici nelle amicizie, che è molto sentita in italia”.
New York è una città che ti piace?
“Qui tocchi un punto sensibile: è l’unica città in cui vivrei. Ci sono venuto tantissime volte, ci ho anche lavorato, Tutta colpa di Freud inizia qui a Manhattan. E ogni volta mi piace di più. Non c’è un motivo specifico, mi fa semplicemente sentire bene. Ha quel carattere originale, non derivato: è un posto dove tante cose iniziano. In altri posti del mondo le cose arrivano, qui partono”.
Hai qualche personale rito, qualcosa in particolare che ti piace fare ogni volta che vieni qui?
“Prendere la bicicletta e andarmene in giro per la città senza meta”.
Perfetti sconosciuti viene proiettato ai Bow Tie Cinemas all’interno del Tribeca Film Festival, sabato 16 alle 22 e lunedì 18 alle 3.45.
Guarda il tailer di Perfetti sconosciuti: