Occhi azzurri, sorriso genuino e novant’anni tutti da raccontare. Nazzareno Maccari, classe 1926, aveva 17 anni quando i fascisti lo presero prigioniero, non perché ebreo o perché oppositore politico, ma semplicemente perché “cittadino”. Si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato, davanti alla sua casa a Tolentino, in provincia di Macerata.
Passarono, lo videro e ne decisero il destino. Nazzareno non aveva nemmeno diciotto anni e non sapeva che di lì a poco la sua vita sarebbe cambiata per sempre. “Non lo so perché mi hanno portato via, quando mi presero i fascisti ero un ragazzino, non ero nemmeno mai andato a Macerata”: dice con il sorriso Nazzareno, che racconta la sua vita come se stesse leggendo tra le pagine di quel diario su cui durante la prigionia scriveva ogni sera, per alleviare il dolore, per avere un amico a cui parlare e per riscaldarsi. “Me lo mettevo sotto l’ascella per sentire un po’ di calore, poi l’ho perso”, racconta il signore dagli occhi di mare con un sorriso che diventa improvvisamente delusione e poi immediatamente dopo speranza: “Chissà se qualcuno l’ha ritrovato e ha letto le mie pagine”.
E’ un fiume in piena Nazzareno, le domande non finisce di ascoltarle che già ricorda, già nella sua mente sembra che si affollino sensazioni, emozioni e immagini a noi sconosciute, per noi inimmaginabili.
Noi, quelli venuti dopo, oggi cosa e come possiamo ricordare? “Bisogna esserci passati per ricordare”. Nazzareno lo sa bene. Di quel giorno in cui lo presero, davanti casa, mentre una vicina supplicava i soldati di lasciarlo andare, dicendo che il ragazzo era innocente non aveva fatto niente, Nazzareno ricorda anche la data: primo aprile 1944.
Il rastrellamento dei reparti italiani delle SS portarono nel campo di internamento di Sforzacosta, a Macerata, tutti i giovani della zona, nati tra il 1914 e il 1926, l’anno in cui venne al mondo Nazzareno.
Il 10 maggio, dopo poco più di un mese, il ragazzino dagli occhi azzurri racconta di essersi trasferito “volontariamente” in Germania. E aggiunge con il solito sorriso: “Sul foglio che ci hanno dato c’era scritto ‘lavoratore volontario”, ma ci hanno accompagnato con il fucile”.
Trasportato su carri bestiame, insieme a tantissimi altri internati, Nazzareno arriva nel campo di concentramento di Khala in Germania il 17 maggio, dopo 7 giorni, viaggiando come bestie.
Dopo 13 mesi di prigionia nel “Lager Eins”, costretto a lavorare, costruire baracche, ubbidire, sentire l’odore che usciva dai forni in cui veniva distrutta l’umanità ebraica, vedere i tanti capelli di altri esseri umani recisi delle loro teste per sempre, Nazzareno ferma il suo ricordo in un momento preciso: 2 aprile 1945.
Quel giorno lo ricorda bene. “Mi ha salvato un lupo”: dice di nuovo con il sorriso di un bambino che riceve le coccole di un cane. Erano i giorni della fame, della sofferenza e del freddo e questo ragazzino tolentinate non ce la faceva più a camminare. “Il cane lupo si è avvicinato, si è appiccicato alla gamba e così mi ha riscaldato la parte sinistra del corpo, l’altra parte, la destra era completamente congelata.”
Infreddolito, bloccato e disarmato Nazzareno trova calore, forse anche umano in un luogo di disumanità totale, nel cane lupo. “Sono sopravvissuto grazie a questo cane lupo, che è tornato da me anche il giorno dopo, il 3 aprile, mi si è avvicinato di nuovo e mi ha portato a scaldarmi nel fienile del suo padrone.”
Il 4 aprile 1945 il cane lupo è ancora al fianco di Nazzareno. “Il lupo mi si è messo vicino e mi ha trascinato sulla strada, dove erano arrivati gli americani, che mi hanno caricato sul loro camion e mi hanno portato via.
Quando mi hanno liberato pesavo 38 chili di carne e ossa, inclusi gli stivali di gomma alti fino al ginocchio e il cappotto che avevo addosso.”
L’armata americana che li ha salvò si stava dirigendo in Francia, “così dopo una quindicina di giorni passati a Marsiglia, la sera del 13 giugno ci siamo imbarcati e il giorno dopo alle 10 del mattino eravamo a Napoli, da dove con mezzi di fortuna ognuno è tornato a casa”.
Nazzareno a novant’anni racconta e ricorda ogni dettaglio, perfino date e orari della sua partenza e del suo arrivo in Germania, ma del periodo nel campo dice solo una parola: “sofferenze”.
Dopo 70 anni da quei giorni, dopo essere tornato nella sua casa, essersi sposato, aver lasciato dietro di sé figli e nipoti e aver coltivato la terra come agricoltore, cosa resta? Due occhi azzurri, tanti ricordi e tante sofferenze, ma anche la consapevolezza di “essere stato sfortunato, ma di essere sopravvissuto”. E resta una Medaglia d’oro consegnatagli lo scorso 27 gennaio, in occasione della Giornata della Memoria, dallo Stato Italiano nelle mani del Prefetto di Macerata Roberta Preziotti.
Quello Stato che nel 1944 lo mandò nel campo di concentramento di Khala. “Non ce l’ho con i tedeschi, ma con gli italiani, perché loro erano miei fratelli”.