Nonostante la metropolitana di Roma sia strutturata per arricchire gli psichiatri della città, per me resta sempre una grande fonte d’ispirazione. Se non si è troppo distratti dall’ascella del vicino (oppure proprio per non pensare a quanto puzza), se la rete internet non funziona bene, se schiacciati dalla folla circostante diventa impossibile pure aprire un libro, allora ci si mette a riflettere. La metro è un microcosmo in movimento. Non funziona mai come dovrebbe, ma è sempre meglio di quel lombricone dell’autobus. Mentre scava sicura la città da una parte all’altra, come una talpa che conosce a memoria la sua diga, all’interno dei vagoni obbliga gli uomini al confronto.
In un periodo di tempo compreso all’interno del programma di partenza e di arrivo si è costretti a mescolarsi, le facce degli altri sono a disposizione affinché le fissiamo. Qualcuno è salito per andare dal suo amore, è una donna vestita bene, è una persona felice. Un altro sale con gli occhi pieni di pianto, va via dal suo amore, è un uomo cui non importa più cosa ha indosso, è una persona triste. I loro volti s’incrociano all’apertura delle porte, adesso l’uomo odia la donna felice, ma presto si ricorda che allora anche lui potrà esserlo ancora. La donna ha pena dell’uomo triste, e invece un attimo dopo ha pena di sé, rammenta che anche lei da un momento all’altro potrebbe diventarlo altrettanto.
Così contaminiamo i destini l’uno dell’altro, così l’umanità s’abbraccia senza saperlo.
Ora entra una grossa signora di etnia rom, ha in braccio un bambino. Inizia a “petere” accompagnandosi con una nenia, è un lamento ossessivo. Ci saranno forse accademie per interpretare lo strazio della vita dei poveri con la voce? Il bimbo che ha in braccio la imita, non sa parlare, ma ripete le curve delle frasi che la madre emette come un verso. Vorrei strapparglielo di dosso, vorrei portarlo via a chi crede sia normale privarsi della dignità ed essere incapace di connettere questo concetto a quello di lavoro. Nel periodo vicino al Natale, poi, gli elemosinanti rom si triplicano, non perché prima ce ne fossero meno, ma perché della cultura occidentale hanno imparato che è sensibile a richiamo. E il richiamo del Natale è irresistibile: tutta quella gente che ama, con il naso all’insù per guardare le luminarie e un po’ perché spera nel cielo, tutti quei sorrisi e quella generosità di doni non possono passare indifferenti nel cuore dei buoni, come noi vogliamo sentirci. Allora il rom, che di questo ha fatto un’arte, forte dei suoi studi sociologici svolti nella “Libera Università della Metropolitana Unita”, comincia ad augurare buone feste a tutti, benedice i nostri cari, raccomanda la salute per i nostri figli, facendo leva sulla superstizione che marcisce ogni intelligenza, così che le persone, per evitare di attirarsi maledizioni proprio durante le feste, lasciano che racimoli fior di monetine. Mi viene sdegno, mi sento razzista. Poi penso che se fossi nata in una cultura così e senza mezzi di sussistenza non avrei saputo come altro fare a procurarmi dei soldi onestamente se non chiedendoli, e per chiederli avrei studiato forse altrettanti modi, per far arrivare agli altri la mia disperata domanda di aiuto tramite le corde vocali.
Inizio a pensare se sia giusto fare le elemosina. Me lo sono chiesto molto spesso, in realtà. Se una di queste persone mi guarda negli occhi non resisto, apro il portafogli e gli porgo una moneta. Subito dopo me ne pento, abbandonandomi all’altalena dei pensieri che si rincorrono per contraddirsi.
La cosa che mi è venuta in aiuto in questo disorientante mondo della carità è stata una massima kantiana. Kant diceva qualcosa sull’azione morale (mi perdonino i kantiani per l’approssimazione) come quella degna di pubblicità: cioè se un’azione è giusta lo capisci perché la puoi anche pubblicizzare, puoi invitare gli altri a fare lo stesso. Allora ho immaginato che se tutti avessero preso 20 centesimi dalle proprie tasche per darle a un povero qualsiasi che è salito in metro per chiederglieli, almeno una volta per ogni viaggio, si sarebbe in poco tempo riempita qualsiasi stazione di bisognosi d’ogni genere, veri o soltanto presunti, che, sicuri della riuscita dell’atto del chiedere, avrebbero chiesto. Ho immaginato che tutti si sarebbero riversati a caccia di denaro lì dove sapevano per certo di trovarlo, trasformando la metro in un gigantesco “bancomat della solidarietà”, da cui chiunque avrebbe potuto attingere. Sospetto che in breve tempo non ci sarebbe stata più alcuna differenza tra i rom accattoni e gli italiani imbroglioni, tutti dediti al far domanda, magari fingendosi poveri per racimolare, invece, denaro sufficiente a cambiarsi la macchina per una più grossa. Dunque no, fare le elemosina in metropolitana non mi era sembrato un gesto sponsorizzabile e in quel momento decisi che non l’avrei fatto più. Avrei imparato a resistere a quegli occhi spalancati sul mio benessere.
Un gesto da promuovere sarebbe stato, invece, quello di contribuire economicamente per un progetto d’integrazione ben definito. Se 59,83 milioni di italiani mettessero un euro a testa, magari proprio a Natale e, che so, a Pasqua, si otterrebbe una tale cifra da far sparire quasi tutti i poveri di questa nostra bella Terra, compresi i rom. Invece che sbaraccare i campi e lasciarli a gironzolare per strada, facendo credere di aver risolto un problema, potremmo costruire anche per loro case e scuole dove mandare i loro bambini affinché giochino insieme ai nostri, creando forme d’interazione.
Non ci si pensa quasi mai, ma i rom spagnoli sono i gitani. La Spagna ha speso fior di quattrini per integrarli nella società civile, con il risultato che adesso si va in quelle terre proprio per ascoltare e vedere il flamenco, un prodotto tipico della cultura rom. Pensare alla penisola iberica senza tacchi che sbattono sembra oggi impossibile, al punto che persino a Barcellona o a Bilbao, che con i gitani c’entrano poco e niente, si possono trovare con facilità spettacoli del genere, offerti proprio per non deludere le aspettative dei turisti.
I rom sono anche ottimi riciclatori. Avendo spesso a che fare con le discariche dove vengono ghettizzati, hanno imparato quello che a noi sfugge: come rendere utile qualcosa di apparentemente inutile. Oggi c’è la corsa alla differenziata, ma non si vogliono tra i piedi i rom, che in realtà andrebbero interpellati come esperti del settore. Considerato che un italiano paga ben più di due euro di tasse l’anno, è verosimile chiedersi come mai non abbiamo servizi efficientissimi, tanto per dirne una, la cara metropolitana. Se si considera che il costo complessivo di un’opera inutile, per altro iniziata e mai portata a termine, come il ponte sullo Stretto di Messina è di 8,5 miliardi di euro, si capisce come mai non ci siano risorse per salvare le persone dalla povertà, italiani o rom che siano. Solo che paradossalmente nessuno s’indigna per lo Stretto e gli altri abnormi sprechi tipici della nostra amministrazione (i telegiornali non ne parlano tutti i giorni). Eppure tutti s’indignano per i rom, che se la gente potesse eliminare fisicamente con un pulsante sicuramente lo premerebbe. Con i soldi che di solito prendiamo dal portafogli per fare un’elemosina e scaricarci la coscienza potremmo invece creare villaggi e pensare a un’impresa da costruire al loro interno, affinché possa sbocciare economicamente da sé una volta datogli inizio. Alla fine della mia riflessione ero praticamente certa che fosse sbagliato fare le elemosina ai rom, quanto fosse giusto indignarsi perché i soldi che avrebbero risolto il problema sono spariti chissà dove.
Quasi nello stesso momento in cui avevo deciso che non avrei mai più dato un centesimo in metropolitana, però, mi è venuto in mente un altro filosofo: Aristotele. Questi fu il primo a dare valore intrinseco all’abitudine. Era convinto (mi perdonino gli atistotelici per l’approssimazione) che di per sé il ripetere un gesto finché non diventa ordinario avrebbe in ogni caso modificato la prassi dell’agire, creando una forma di dipendenza per l’attitudine a ripetersi, indipendentemente se la natura del gesto ripetuto fosse giusta o sbagliata. A distanza di secoli, mi sembra comunque un’osservazione impeccabile. Abituarsi a qualcosa fa sì che la prediligiamo quasi naturalmente, senza interrogarci più se è quello o no il modo giusto di fare, almeno finché non sorge una forma di conflitto esterno con quel comportamento automatizzato.
Sembrandomi anche Aristotele nel giusto, ho ipotizzato come sarebbe stato se tutti smettessero per sempre di dare una monetina a chiunque la chieda in metropolitana. Quest’ultima sarebbe diventata sicuramente un posto più asettico, pulito, sgombero da mani tese e da litanie petulanti, senza più bambini in braccio a madri sciagurate. Ho pensato a che genere di modifica sulla disposizione delle persone a dare si sarebbe verificata: semplicemente ci si abituerebbe a girare la faccia. Nessun pianto potrebbe niente di fronte all’abitudine al non cedere, mai, indipendentemente dagli espedienti cui ci si rivolge per ottenere quanto chiesto. I piedini di un bimbo sporco non ci importerebbe più di vederli scoperti, a gennaio. Un vecchio che tossisce e si ostina a girare con addosso i chili della sua pianola, suonata in cambio di pochi spicci, rallegrando chi non può far altro che aspettare, non ci farebbe neanche un po’ pensare a nostro nonno, facendo da campanello d’allarme perché è un po’ che non lo si va a trovare. Una madre non sarebbe più una madre, perché non avrebbe avuto diritto a partorire per finire poi ad allattare per strada, dimenticando che quei pochi tratti comuni che ancora fanno sembrare quella umana una specie sono proprio il desiderio di riprodursi, d’amare il frutto della propria carne, di crearsi un nucleo che si dica nostro.
Grazie alla forza dell’abitudine diventeremmo, in altre parole, completamente insensibili al dolore degli altri. Finiremmo per credere che i poveri si meritano di esserlo, scioccamente convinti che invece noi non potremmo mai diventarlo, almeno non a quel livello, non tanto da andare a fare le elemosina per strada.
La metropolitana che oggi ancora mi piace diventerebbe un ricettacolo di sguardi vuoti, spenti, senza più nulla da scambiarsi o da condividere. Ho ripensato allora a quale sarebbe stata la giusta regola da darmi per sapere cosa fare di fronte a una mano tesa. Alla fine del mio ragionamento, mi sembrava ancora valido il principio per il quale non volevo far diventare i mezzi di trasporto luoghi d’accattonaggio regolarizzato, per cui avrei lasciato vuota quella mano, avrei resistito all’impulso di essere momentaneamente caritatevole, per usare l’energia risparmiata attivandomi concretamente affinché queste persone potessero stare meglio in maniera strutturata e organizzata. Non avrei riempito quel palmo con l’espediente di un soldo per arrivare a fine giornata e rinnestare il circolo. Non l’avrei fatto tutte le volte, tranne una, diciamo una su dieci. Quella volta in cui avrei ceduto alla richiesta, sarebbe servita a spezzare la catena dell’abitudine a rifiutarmi. Quella volta su dieci mi sarebbe servita a restare umana.