Pochi giorni fa è stato scritto l’ennesimo capitolo della vicenda dei soldati italiani morti a causa delle bombe utilizzate nelle “missioni di pace”. Nel 2010, la XII sezione del Tribunale civile di Roma aveva ritenuto responsabile il Ministero della Difesa e aveva imposto un risarcimento di oltre un milione di euro in favore degli eredi di un militare italiano reduce dal Kosovo e morto a causa di un cancro contratto per gli effetti dell’esposizione alle polveri di uranio impoverito. Un risarcimento, però, che lo Stato non ha mai pagato. Inutili i ricorsi e i solleciti. Per questo i parenti del militare italiano sono stati costretti, nei giorni scorsi, a presentare un nuovo ricorso, “mediante atto stragiudiziale”, diffidando il Ministero a “provvedere al risarcimento” entro 30 giorni.
Quella dell’uranio impoverito (e delle conseguenze che ha provocato) è una storia “sporca”. Una vicenda di cui non si parla volentieri, forse perché rivela uno dei tanti lati oscuri delle “missioni di pace”. La storia risale ai tempi di missioni come quella in Kosovo, negli anni ’90 del secolo passato. Fu allora che in Italia si cominciò a parlare delle conseguenze dell’utilizzo di uranio impoverito (DU, depleted uranium) come componente di missili e munizioni. L’uranio impoverito è uno scarto del processo di arricchimento dell’uranio, che viene poi utilizzato nei reattori nucleari o nelle armi nucleari, mediante isotopi fissili. Questo scarto è meno radioattivo dell’uranio naturale, ma possiede proprietà fisiche quali la densità elevatissima (19 g/cm3, 1.7 volte maggiore della densità del piombo) ed una notevole duttilità. Proprietà che, unite ad un costo basso, lo rendono richiestissimo dall’industria bellica come alternativa ad altri materiali, ad esempio, il tungsteno monocristallino, che ha proprietà analoghe, ma è molto più costoso.
I missili e i proiettili realizzati o ricoperti con questo materiale sono molto efficaci contro le corazzature (è estremamente denso e piroforico). Per questo le munizioni di questo tipo vengono chiamate nella terminologia militare API, Armor Piercing Incendiary, munizioni perforanti incendiarie. La storia dell’utilizzo dell’uranio impoverito per produrre armamenti risale addirittura ai tempi della seconda guerra mondiale (anche Hitler voleva utilizzarlo). Ma il boom di queste munizioni, specie negli Stati Uniti, risale alla guerra del Golfo (ne sono state usate circa 500 tonnellate). Se ne è fatto grande uso anche in molte altre “missioni di pace”: in Bosnia nel 1995 e, nel 1999, in Serbia e nel Kosovo.
Il problema legato all’uso di questo materiale è che, dopo il contatto, genera polveri sottili poco radioattive, ma estremamente dannose per la salute. Sono molti gli studi (come quello effettuato da Diane Stearns, della Northern Arizona University), che hanno dimostrato che cellule animali esposte a queste sostanze (in particolare al sale di uranio solubile in acqua, l’acetato di uranile) sono soggette a tumori e ad altre patologie (danni a reni, pancreas, stomaco/intestino). Danni che non colpiscono solo gli “obiettivi” dei proiettili, ma tutti quelli presenti sul campo, civili o militari, di una fazione o dell’altra. Questo significa anche che i luoghi dove vengono utilizzate queste armi sono contaminati da radiazioni e da nanoparticelle potenzialmente letali.
Stranamente, però, nessuno ha cercato di capire quali siano state le conseguenze dell’uso di proiettili con DU sulla popolazione dei Paesi in cui si sono svolte le “missioni di pace” dell’ONU e della Nato. In questi Paesi, dopo le missioni, la gente era “libera”: libera di morire di tumore a causa della guerra “sporca” che era stata portata sulla loro terra. Immense aree piene di residui di nanopolveri di quello che un recente libro sull’uso militare dell’uranio impoverito ha chiamato il “metallo del disonore”.
Dell’uranio impoverito si è tornato a parlare solo dopo che patologie ad esso riconducibili si sono manifestate nei soldati italiani di ritorno dalle missioni di pace. Patologie causate anche dal fatto che i militari non erano stati avvertiti dei pericoli derivanti dall’uso di queste munizioni. “Noi italiani operavamo a mani nude, con il volto scoperto, senza maschere, in territori altamente inquinati da proiettili di uranio impoverito, ancora conficcati al suolo”, ha detto il capitano Enrico Laccetti, che, al ritorno dalla “missione di pace” nei Balcani, si è ritrovato nei polmoni un linfoma lungo 24 centimetri provocato, come ha dimostrato la biopsia, “da nanoparticelle di metallo pesante”.
Patologie gravi che, in pochi anni, hanno causato la morte di decine, forse centinaia di soldati. Per questo i parenti di alcuni di loro hanno citato in Tribunale lo Atato: per avere, se non altro, giustizia morale. E, invece, per assurdo che possa sembrare, dopo la sentenza di primo grado e dopo il ricorso (entrambi favorevoli ai parenti delle vittime), lo Stato ha continuato a fare orecchie da mercante. Per questo motivo, nei giorni scorsi, alcuni di loro sono stati costretti a rivolgersi al giudice amministrativo per obbligare il Ministero e lo Stato ad ottemperare alla decisione del giudice civile e a chiedere la nomina di “un commissario ad acta affinché provveda in via sostitutiva”. In altre parole, a chiedere il pignoramento dei beni del Ministero nel caso in cui dovesse ostinarsi a non pagare.
La ragione di un simile comportamento da parte della pubblica amministrazione, però, potrebbe essere un’altra. La sentenza della Corte d’Appello di Roma con la quale il Ministero della Difesa è stato condannato a risarcire i familiari di un altro reduce del Kosovo, avrebbe riconosciuto “l’inequivoca certezza” del nesso di causalità tra la malattia e la sostanza tossica e, cosa ben più grave, le responsabilità dei vertici militari “per avere colposamente omesso di adottare tutte le opportune cautele atte a tutelare i propri militari dalle conseguenze dell’utilizzo dell’uranio impoverito”.
Il pericolo legato all’utilizzo dell’uranio impoverito pare fosse noto a tutti: agli americani alleati (che, nonostante l’evidenza scientifica decennale delle conseguenze, riconobbero gli effetti e i danni causati solo nel 2000), alla Nato (che ha ammesso l’utilizzo, solo in Kosovo, di circa 31.000 proiettili con DU pari a tonnellate e tonnellate di questa sostanza) e perfino alle Nazioni Unite che, nel 1996, hanno adottato una risoluzione in cui sollecita "…tutti gli Stati a ispirare le loro politiche nazionali alla necessità di contenere la produzione e la diffusione di armi per la distruzione di massa o a effetto indiscriminato, in particolare armi nucleari, armi chimiche, ordigni combustibile-aria, napalm, bombe a frammentazione, armamenti biologici e contenenti uranio impoverito”.
Anche in Italia l’uranio impoverito (sotto, foto tratta da italian-samizdat.com) è stato a lungo al centro di accesi dibattiti: in un discorso tenuto al Senato nel 2001 è riportato che “per quanto riguarda il Kosovo, come è noto da allora, la Nato, nel maggio 1999, ha fatto sapere di aver utilizzato in quella regione munizionamento all’uranio impoverito”. I vertici dell’esercito e del Ministero e i politici avrebbero dovuto sapere quali erano i rischi per la salute dei militari. Non a caso venne istituita anche una commissione (Commissione Mandelli) “per accertare tutti gli aspetti della questione. (…) Essa dovrà stabilire se si tratti di episodi singoli, non correlabili fra di loro o, viceversa, se possa esistere una causa unica e, in questo caso, se tale causa possa essere l’uranio impoverito o se l’insorgere di queste patologie sia dovuto ad altri motivi. (…) Noi vogliamo fare chiarezza; lo dobbiamo innanzitutto ai nostri militari e alle loro famiglie; lo dobbiamo a tutti gli italiani”.
E infatti, alla fine, “chiarezza” è stata fatta. Ma a farla è stato il Tribunale e solo dopo quindici anni e diversi gradi di giudizio. La verità, forse, è che lo Stato, che conosce bene gli effetti sulla salute dei nostri soldati dell’utilizzo di queste armi (nel 2010 è stato istituito un fondo da 10 milioni di euro destinato alle vittime), con tutta probabilità, ha paura di quali sarebbero le conseguenze che potrebbe avere questa sentenza. I casi di tumore tra i militari di ritorno dal fronte dopo le “missioni di pace” sono molte migliaia e, da quando è stato aperto lo sportello per segnalare i casi di malattie causate dal DU, al Ministero sono state presentate oltre 500 richieste di risarcimento (e il loro numero continua a crescere). Cosa succederebbe se tutti questi militari o le loro famiglie decidessero di ricorrere ai Tribunali e se, visti i precedenti, questi riconoscessero loro risarcimenti milionari? Forse, il motivo dell’indifferenza e dell’apparente insensibilità del governo nell’ottemperare a quanto stabilito dal Tribunale è proprio quello di scoraggiare sia le vittime dell’uranio impoverito ancora in vita, sia i familiari dei militari deceduti.
Forse, però, la cosa più “sporca” di tutta la vicenda è un’altra. A sapere che le munizioni che stavano utilizzando erano pericolose per la loro salute erano anche i nostri soldati. I quali, però, non poterono far altro che continuare ad utilizzarle ben sapendo che alcuni di loro, anni dopo essere tornati in Italia sani e salvi dal fronte, sarebbero morti di una morte terribile. Molti di loro, probabilmente, sapevano che stavano mettendo a rischio la propria vita non per la patria (né la loro, né quella di altri), ma per permettere a qualche fabbricante di armi e armamenti di risparmiare sui costi di produzione.
Sì, perché, in fin dei conti, i nostri militari sono morti per consentire ad alcune aziende di “risparmiare” sui loro strumenti di morte. Aziende americane, canadesi, cinesi, francesi, inglesi, sudafricane, russe: sono molte le imprese che hanno prodotto armamenti utilizzando l’uranio impoverito. E nessuna di loro lo ha fatto in segreto: spesso tra di loro si annoverano nomi di contrattiste per i ministeri e, in qualche caso, aziende di diretta proprietà dei governi. Imprese che, per produrre queste armi, spesso sono state anche lautamente finanziate dalle maggiori banche (i nomi sono emersi dopo un’inchiesta condotta da una Ong belga, Netwerk Vlandereen).
Una cosa è morire per il proprio Paese durante un combattimento, a causa di una pallottola o per una bomba (per quanto sbagliato e cinico possa sembrare, fa parte dei rischi del mestiere di un militare). Ben altra cosa è, invece, morire per un tumore causato dalle munizioni fornite dal proprio Paese e dai propri superiori e solo per fare gli interessi di qualche grossa industria o di qualche banca. E ancora peggio se, dopo molti anni, si viene a sapere che, come sostiene la sentenza, i vertici della Difesa erano a conoscenza dei rischi connessi con l’utilizzo di quelle munizioni (il Tribunale “ha accertato non solo che i vertici militari erano a conoscenza dei rischi derivanti dall’esposizione all’uranio impoverito, ma anche che non hanno fatto nulla per prevenirli“).
Nessuno dei nostri soldati, mentre rischiava la vita in Kosovo o in qualche altra “missione di pace”, si sarebbe mai potuto aspettare che i propri superiori, quelli di cui loro si erano fidati, quelli che avevano ordinato di usare le munizioni fatte con il DU e di non aver paura delle conseguenze, che proprio loro, dopo anni, non avrebbero avuto il coraggio di ammettere di aver sbagliato. E che non lo avrebbero fatto neanche dopo che la loro colpa era stata provata da un tribunale…
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