Dopo Brooklyn, in questi ultimi anni è il Queens il distretto di New York che sta conoscendo la più rapida trasformazione. Scelto da artisti e giovani professionisti per i prezzi più abbordabili rispetto ad altre zone della città, il Queens è ormai destinazione d’obbligo per chi è in cerca di cultura.
A guidare questa rinascita c’è, tra gli altri, il Museum of Moving Image, un bel museo dedicato alla settima arte e alla sua storia, piccola perla ancora poco nota nel ricco panorama dei musei newyorchesi. Se non lo avete ancora visitato, un’ottima occasione per farlo la offre, fino al 16 luglio, la mostra Sensory Stories con cui il museo offre una panoramica sulle intersezioni tra arte, story telling e nuove tecnologie. Un’immersione nel futuro che promette di non deludere il piccolo nerd che è in voi.
Diciassette le installazioni esposte in questa mostra che raccoglie sperimentazioni creative che esplorano le relazioni tra mente e corpo, creando un’esperienza fortemente interattiva, capace di mettere in discussione le basi della percezione e farvi divertire come bambini, ovvero come mi sono divertita io all’anteprima per la stampa.
Appena all’ingresso del museo, il mio viaggio inizia con Birdly. Il mio sciamano in questa prima immersione sensoriale è un ragazzo dall’accento nord europeo che mi spiega come funziona il marchingegno e mi assicura che starà al mio fianco per tutta la durata dell’esperienza. Mi arrampico sul marchingegno (scomodo e non proprio adatto al vestito che indosso. “Ma – mi dice il mio spirito guida – mi dimenticherò subito della scomodità quando inizierò a volare”. Mi fido e non me ne pentirò), mi distendo a pancia in giù posizionando le braccia in corrispondenza delle ali e, indossati gli occhiali 3D, mi ritrovo a volare sui tetti di San Francisco. La macchina reagisce ai miei movimenti e ho modo di sperimentare tutta la mia scarsa esperienza di uccello (sembra facile ma c’è tutta una scienza dietro quel flap-flap, provate a chiederlo a Leonardo), con tanto di impicchiate mozzafiato, rocambolesche planate rasoterra e affannose risalite a filo di grattacielo. Wow! Non è consentito un secondo giro ma lo spirito guida mi dice che è in lavorazione una versione newyorchese e questo basta a mettermi in uno stato di entusiastica aspettativa.
Altro giro, altra corsa: l’installazione Hidden Stories è una vera e propria tavolozza di storie. Avvicinando un cono luminoso a dei disegni sul muro, si possono ascoltare storie diverse per diversi oggetti e lo spettatore può contribuire con la sua personale storia. Mi diverto a saltellare da una storia all’altra, inseguendo le immagini che si illuminano da una parte all’altra della parete.
Al piano superiore del museo, al centro di una stanza scura, c’è un cubo bianco appoggiato su un piedistallo. L’istallazione si chiama Cube-Untitled ed è un progetto degli studi Google di Sidney. Prendendo in mano il cubo e iniziando a muoverlo, l’immagine sullo schermo, anch’essa a forma di cubo, inizia a muoversi. Mi ci vuole un po’ per capire che ogni faccia del cubo ha un suo video che racconta una storia diversa. Ma – sorpresa! – muovendo il cubo in un certo modo, personaggi, oggetti e suoni di una data storia sconfinano in un’altra storia. Mi affeziono a una sorta di uomo delle caverne post-moderno dall’incolta barba rossa e cerco di fare in modo che entri in tutte le storie del cubo. Un’esperienza da capogiro in grado di creare forte dipendenza.
In un’altra stanza, attrezzata con comodi divanetti, ci sono diverse postazioni con occhiali 3D e cuffie: ognuna è un viaggio diverso. In Herders mi ritrovo seduta su una roccia nel bel mezzo di un incontaminato paesaggio montano in Mongolia. Venendo dal caos di New York, respiro profondamente e mi godo la vista. Mandrie di animali pascolano tranquillamente a un passo da me, mosche mi ronzano intorno, una famiglia si ferma a fare un picnic e non mi degna di uno sguardo, un vecchio pastore si mette a suonare un tradizionale strumento musicale. Poi la scena cambia e sono dentro una tenda, “ospite” di una famiglia che sta preparando la cena. Se si sentisse anche l’odore del cibo rischierei di non andarmene più.
Ma è tempo di un altro viaggio. Nella postazione a fianco c’è Evolution of Verse. Mi siedo, indosso cuffie e occhiali e sono nel mezzo di un quieto lago circondato da boschi rigogliosi, all’improvviso la situazione cambia, ma non voglio dirvi troppo perché vi rovinerei l’esperienza. Dico solo che ci sono di mezzo un treno, uno stormo di uccelli (che ha messo a dura prova le mie fobie) e un feto dallo sguardo vacuo e attonito di chi se ne sta immerso nel liquido amniotico.
Altre installazioni propongono esperienze interattive che raccontano di problematiche ambientali, sesso e altre amenità. C’è anche un’installazione dell’ONU che ci porta all’interno di un campo profughi in Siria, guidati da una bambina che sogna di tornre a casa. Ma mi sono dilungata troppo nella realtà virtuale e l’addetta stampa del museo viene a informarmi che la press preview è finita e ci sono rimasta solo io. Avrei voglia di attaccarmi alle sue gonne e supplicarla di non farmi tornare nel mondo reale. Riesco a strapparle un altro minuto per vedere l’installazione all’ultimo piano: una piccolo grande spettacolo che fa l’occhiolino alle origini dell’arte della moving image. Come in un teatro delle ombre, Parade è un palco su cui due buffe sagome, illuminate da una luce che oscilla attaccata a una corda, si muovono sullo sfondo, ma i movimenti delle ombre non hanno nulla a che fare con quello che succede nella realtà della sala. Misteri della scienza che non ho il tempo di farmi spiegare: mi scortano all’uscita. Mi ritrovo, accecata dal sole, su una tranquilla via di Astoria, mentre i newyorchesi escono dagli uffici per la pausa pranzo. Un attimo di smarrimento, ma poi tutto passa. Per fortuna New York non è avara di prodigiose stranezze. Altro giro, altra corsa.