Dalla cantina che sorge al centro di Serdiana, paesino a 20 km da Cagliari, si intravedono i primi poderi, una distesa infinita di vigne che segnano l’orizzonte come un quadro di Van Gogh. Fondata nei primi decenni del 900 dal patriarca Antonio Argiolas che iniziò a muovere i primi passi nel commercio fin da bambino, la Cantina Argiolas è oggi un colosso che ben rappresenta la Sardegna nel mondo.
Un podere che si estende per 250 ettari suddivisi in cinque fattorie:
- Trexenta, che si estende nei territori storici del parteolla
- Serdiana, a pochi km dalla cantina ospita i vitigni più importanti
- Sisini, dove si produce la maggior parte dei bianchi della cantina
- Selegas, dove oltre alle varietà tradizionali( Monica, Bovale Sardo, Vermentino, Carignano, Malvasia bianca) è anche il più vasto campo sperimentale dell’azienda.
- Sulcis

Intervisto Valentina Argiolas, la nipote di Antonio, che mi fa notare che oggi sono alla terza generazione. Con una laurea in Economia e una passione per il suo lavoro, non ci sono mai stati dubbi su quello che Valentina avrebbe voluto fare da grande.
Mi racconta della sua famiglia, dell’azienda e del tanto lavoro che c’è dietro ad ogni soddisfazione e ad ogni traguardo.
Partiamo dalle origini, da Nonno Antonio, da quando il vino veniva venduto sfuso e l’azienda possedeva al suo interno anche un caseificio e un oleificio che tuttora funziona.
Quello che è oggi è l’eredità di quello che il Nonno ha saputo negli anni coltivare, la sua passione, la sua idea di arrivare dove oggi i fatti dimostrano e dove altri invece hanno deposto le armi.
Ma quello che è oggi è anche la loro tenacia, la loro determinazione, i loro sacrifici per rendere questo nome altisonante nel mondo.

Sono ben 50 i paesi dove esportano, dall’Europa al Nord America, dall’Asia all’Australia sino alla Nuova Zelanda.
Valentina ha nel sangue la passione per il suo lavoro trasmessagli oltre che dal Patriarca dal padre e dallo zio, mi racconta degli inizi, dei viaggi del Nonno che si spinse addirittura sino alla California dove la storia vitivinicola ebbe inizio nel secolo XVI con la fondazione delle missioni spagnole, le cosiddette mission.
Nel 1938 Antonio Argiolas inizia questa scommessa, senza mai fermarsi, nemmeno la guerra lo fa desistere, continua a lavorare cercando di non accumulare debiti, gli amici lo sostengono e le banche lo aiutano anche quando il conto va in rosso credendo come lui in un progetto che presto darà i suoi frutti.
Sono anni di duro lavoro, non esistono più i giorni feriali e quelli festivi ma ciò non allenta il suo entusiasmo e la voglia di farcela. Tra la fine degli anni 70 e gli anni 80 va controcorrente, quando il governo pagava per espiantare le vigne e rendere i terreni produttivi per nuove coltivazioni lui non cede alle lusinghe ma ne acquista di nuovi.
Successivamente con la complicità dei figli Franco e Giuseppe iniziano ad innovare l’azienda, innovazione che tutt’ora prosegue. Gli impianti vengono rimodernati sostituendo innanzitutto i vecchi serbatoi d’acciaio che rendono le cantine simili a raffinerie di petrolio e così pure vengono rimodernati i vigneti, cambiando i metodi di coltivazione e tenendo conto prima di tutto del rispetto della pianta.
Nell’88 imbottigliano il primo vino “Il Turriga” (Il nome è quello di un villaggio preistorico, dal quale proviene la piccola scultura che appare nell’etichetta ). Prende vita da un uvaggio nel quale predomina il Cannonau, ma sposato al Carignano, al Bovale e alla Malvasia nera. Nato dalla collaborazione del Re degli enologi, Giacomo Tachis che farà strada all’attuale enologo Mariano Murru, sarà il vino che li consacrerà.
Questo capolavoro premiato con la Gran Medaglia d’Oro al vinitaly di Verona del ’97 (annata ’88), invecchiato per 12/24 mesi in barrique di rovere francese e ulteriormente invecchiato in bottiglia per 12/14 mesi è il loro biglietto da visita.
Da qui una escalation di successi e premi con questo ed altri vini dell’azienda tra i quali i non meno noti bianchi a cui dedicano il 50% della produzione.
La loro filosofia, utilizzare solo piante autoctone e rispettare sempre e comunque la tradizione.
Mi invitano a fare una passeggiata nei sotterranei, perché la cantina per rispettare i voleri del Nonno non è mai stata spostata dal suo luogo d’origine, e di conseguenza per far fronte agli spazi hanno dovuto ingegnarsi ed ampliare gli spazi sotto il suolo del grande spazio antistante la casa.
Appena si varca l’ingresso di quello che io definirei caveau, l’odore del mosto si fa sempre più pungente e caratteristico, è una sensazione piacevole all’olfatto e alla vista quando si materializzano davanti a me 3500 botti di rovere ben disposte, ciascuna che fa da culla a quello che tra qualche mese sarà nelle tavole di chi il vino lo sa apprezzare.
Mi parlano della tostatura, una tecnica di bruciatura che viene effettuata all’interno delle botti, che varia in base a quello che si vuole ottenere dal vino. Visito la riserva di famiglia e quella antichissima del Nonno al quale dedica ad ogni evento particolare un’annata. A fare da cornice a tutto ciò, gigantografie di ultracentenari sardi ancora in vita.
Passo al laboratorio e la domanda mi viene spontanea:
Come nasce l’ispirazione per creare un nuovo vino?
“Si fanno studi sulla biodiversità a cui seguono sperimentazioni che durano anche 4/5 anni, poi si segue l’istinto ma non ci si affida mai al caso, si prova e si riprova e quando abbiamo raggiunto la perfezione etichettiamo”.
Qui un passo alla volta l’uva si trasforma in vino che poi matura nel legno delle botti, si conserva la tradizione e la si mantiene viva e vitale.
La cantina oggi è diventata anche un luogo di cultura dove si tengono manifestazioni, corsi e incontri, dove il piacere si mescola al sapere, dove il passato si fonde con il presente.
Ad altre mille buone annate. Salute!