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October 7, 2013
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Quando la cucina italiana fa scuola

Maurita CardonebyMaurita Cardone
Gli "studenti" di Identità Golose a La Scuola Grande di Eataly. Foto: Matilde Damele

Gli "studenti" di Identità Golose a La Scuola Grande di Eataly. Foto: Matilde Damele

Time: 4 mins read

 

È stata un successo Identità New York, la tre giorni da Eataly dedicata all’incontro tra culture del cibo, organizzata dall’associazione Identità Golose, con il patrocinio della città di Milano e di Expo 2015, oltre che con la sponsorship di una lunga serie di aziende dell’enogastronomia italiana.

Hanno registrato il tutto esaurito sia le cene di degustazione che i workshop a La Scuola Grande di Eataly. Nel corso delle tre giornate, tra i tanti piatti e sapori che si sono avvicendati sulle tavole degli ospiti, la costante è stata l’influenza italiana: tanto per mettere in chiaro con i foodies newyorchesi che la cucina italiana è ormai parte della cultura gastronomica internazionale, anche nelle preparazioni di cuochi che non hanno nulla di italiano.

Cracco Identità New York

Lo chef Carlo Cracco durante il suo workshop, accompagnato da Alessandra Rotondi, food and wine consultant. Foto: Matilde Damele

E così molti dei 12 chef che hanno animato la tre giorni, hanno reinterpretato piatti tradizionali delle cucina italiana, con un tocco di modernità, un pizzico di esotismo e tutta l’inventiva e la creatività del cuoco. Interessante, ad esempio, il piatto proposto da Jeremy Bearman, chef di Rouge Tomate, ristorante newyorchese specializzato in cucina salutare che – ci ha tenuto a specificare – non significa cucina di sacrifici che rinuncia al gusto. Nel suo workshop Bearman ha preparato gli gnudi, degli gnocchi “nudi”, ovvero senza patate ma preparati con un impasto di formaggio, ricotta e farina e poi conditi con olio al tartufo ed erbe aromatiche. E gli Italiani non sono stati da meno in fatto di sperimentazioni e contaminazioni: Carlo Cracco, per esempio, ha preparato degli spaghetti al caviale utilizzando la tradizionalissima chitarra abruzzese, ma preparando l’impasto con la farina di riso. Viviana Varese ha stupito con una parmigiana quasi post-moderna con granita di formaggio e cubetti di pomodoro intrisi di succo. Una delizia dietro l’altra.

Il vero richiamo del festival sono stati proprio i workshop, in cui gli ospiti hanno potuto assistere alla preparazione di uno o più piatti rappresentativi della cucina dello chef di turno. Gli alunni-commensali erano seduti in ordinate file di banchi da due, proprio come quelli di scuola ma qui apparecchiati di tutto punto con calici, posate e tovaglioli. In cattedra, o meglio dietro i fornelli, per ognuno dei seminari si sono alternati un cuoco italiano e uno americano che hanno guidato un pubblico estremamente recettivo e interessato ai trucchi del mestiere, lungo tutto il procedimento per realizzare le proprie creazioni. Dai banchi gli “studenti” alzavano la mano e facevano domande, spesso increduli davanti all’apparente facilità con cui i cuochi si districavano tra ingredienti, pentole, padelle, impasti, farciture e tempi di cottura. E davanti a tanta maestria, non tutti sembravano convinti che, come continuavano a ripetere gli chef, quanto stava avvenendo in quella stanza fosse facilmente riproducibile nella cucina di casa propria. E forse la dimensione delle cucine newyorchesi non aiuta.

Mentre tra i banchi passavano gli ingredienti da toccare con mano e odorare con naso, da fuori, interrompendo il passeggio dello shopping su 23rd street, molti si fermavano a dare una sbirciatina attraverso la vetrina, cercando di carpire qualcuno dei segreti dei cuochi (alcuni dei quali erano volti noti al pubblico televisivo). Fortuna che da fuori non potessero sentire gli odori che si sprigionavano dalla cucina e che facevano venire il languorino a chi era seduto tra i banchi, ansioso di assaggiare il piatto che aveva appena visto preparare. Finalmente, spiegati e mostrati tutti i passaggi delle ricette, gli ospiti hanno potuto gustare i piatti accompagnati da vini e birra rigorosamente made in Italy, il cui abbinamento con le pietanze è stato spiegato da Alessandra Rotondi, wine and food consultant, che ha fornito dettagli su zone di provenienza, processi produttivi e caratteristiche.

Paolo Marchi, Identità New York

Paolo Marchi introduce il workshop di Matthew Lightner (sulla destra). Foto: Matilde Damele

A conclusione dell’evento, con la pancia piena di prelibatezze, La VOCE ha fatto una chiacchierata con il fondatore di Identità golose e organizzatore dell’evento Paolo Marchi che ha partecipato a tutti i seminari, senza mai risparmiare ai cuochi domande da vero gourmand.

“È bello essere qui a raccontare la cucina italiana contemporanea. La nostra è una cucina immediata e, direi, simpatica nel senso che non è complicata, non mette soggezione. Quando mangi un piatto italiano, nonostante l’enorme varietà di sapori e ingredienti, sai cosa c’è nel piatto, sai cosa stai mangiando. La cucina italiana non ti tradisce, né nella sostanza né nel sapore. E poi è economica, che non è poco di questi tempi”.

Giornalista e critico gastronomico, per più di 30 anni food editor a Il Giornale, Paolo Marchi ha fondato Identità golose nel 2004 e dal 2010 ha creato Identità New York. “New York è il mondo – ci ha detto spiegando perché Identità Golose abbia scelto la Grande Mela – È una città vetrina. E poi per la cucina italiana è un luogo particolarmente significativo visto che gli USA, ma New York in particolare, sono il posto dove ci sono più italiani fuori dall’Italia. Parlare di cucina italiana qui significa comunque rivolgersi a un pubblico che sa di cosa parli, che ha visto la cucina italiana cambiare ed evolversi nel tempo, dalla cucina di primi immigrati ai ristoranti rinomati che ci sono oggi. New York ha una memoria del cibo italiano”. E intanto non resta che conservare nella memoria i sapori di questa edizione di Identità New York, in attesa dell’anno prossimo.

 

 

 

 

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Maurita Cardone

Maurita Cardone

Giornalista freelance, abruzzese di nascita e di carattere, eterna esploratrice, scrivo per passione e compulsione da quando ho memoria di me. Ho lavorato per Il Tempo, Il Sole 24 Ore, La Nuova Ecologia, QualEnergia, L'Indro, senza che mai mi sia capitato di incappare in un contratto stabile. Nel 2011 la vita da precaria mi ha aperto una porta, quella di New York: una città che nutre senza sosta la mia curiosità. Appassionata di temi ambientali e sociali, faccio questo mestiere perché penso che il mondo sia pieno di storie che meritano di essere raccontate e di lettori che meritano buone storie. Ma non ditelo ai venditori di notizie.

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