Dopo cinque anni da La paranza dei bambini, Claudio Giovannesi ritorna con Hey Joe, presentato nella sezione Grand Public della 19esima edizione della Festa del Cinema di Roma. Stavolta, il regista cambia prospettiva: se in passato ci ha portato a esplorare l’universo dei ragazzi di Napoli, qui si concentra, invece, su un padre – Dean Barry, interpretato da James Franco – un americano stanco, disilluso, divorziato e appesantito dai propri fantasmi. Nel 1971, riceve un telegramma inatteso, una notizia dal passato che arriva con 12 anni di ritardo: Lucia, il suo vecchio amore italiano, è morta, e suo figlio Enzo, mai conosciuto, ora desidera incontrarlo.
Hey Joe è un racconto che si dispiega tra tre spazi e due epoche: la Napoli distrutta del 1944, la Napoli in fermento del 1971 e il New Jersey degli anni ’70, da cui Dean parte in un viaggio quasi mitologico. Il regista stesso lo descrive come un moderno Ulisse: “Un uomo alla deriva che cerca un porto sicuro, un padre che ritorna ma che non può più riconoscere la terra che ha lasciato”, spiega. Il personaggio di Franco è complesso, spezzato, e la sua relazione con il figlio Enzo (interpretato da Francesco Di Napoli) è fatta di silenzi carichi, parole mai dette che dicono più di mille discorsi. Enzo, cresciuto nella durezza dei vicoli di Napoli, fatica a vedere in quell’americano distante la figura di un padre, mentre Dean, spaesato e inadeguato, non sa come stabilire un legame con un figlio che, alla fine, è quasi un estraneo.
Giovannesi attinge al neorealismo di Rossellini e al cinema popolare di Mario Merola per riportare in vita una Napoli sospesa tra mito e realtà, dove il contrabbando e la povertà convivono con il fascino distante dell’America. Dean sembra muoversi come un fantasma: ha imparato un italiano stentato, quasi simbolo della distanza che lo separa da Enzo, creando una barriera linguistica che riflette l’impossibilità di capirsi davvero .“Gli americani portarono un sogno che per Napoli è rimasto solo una promessa”, ricorda il regista. “Dean è l’incarnazione di quel sogno infranto, un uomo che arriva con le promesse di libertà e ricchezza, ma che finisce per rimanere prigioniero dei suoi stessi errori”.

Franco, reduce da vicende personali che ne hanno segnato la carriera, si avvicina a Dean come se cercasse anch’egli una sorta di riscatto. Napoli, con il suo fascino senza tempo, diventa il palcoscenico perfetto per il suo tormento interiore. Dean si aggira per la città con l’aria di chi cerca qualcosa che teme di trovare. “James ha lavorato sulla sua fragilità. Non volevo che recitasse, volevo che fosse Napoli a parlargli, che reagisse a ciò che la città rappresenta”, spiega Giovannesi, citando l’approccio di Steve McQueen. E Franco lo fa: porta sullo schermo un ritratto crudo e vulnerabile, l’immagine di un uomo che tenta di rimettere insieme i frammenti della propria esistenza, un pezzo alla volta, mentre Napoli gli sussurra, quasi sommessa, le sue verità.
La guerra, in Hey Joe, è come un’ombra sussurrata, invisibile ma radicata ovunque: nei volti segnati degli abitanti, nell’opulenza sfuggente degli oggetti americani. Giovannesi usa materiale d’archivio, immagini in 16mm della Seconda Guerra Mondiale e del Vietnam, e fonde il passato di Dean con quello di Napoli. Emerge così un quadro dove le vere cicatrici dei conflitti si riflettono soprattutto nelle vite delle donne e dei bambini, come un’eredità amara che attraversa generazioni.
Alla fine, Hey Joe, nelle sale italiane dal 28 novembre e in attesa della distribuzione negli Stati Uniti, ci lascia sospesi, come Dean, tra il desiderio di riscatto e il peso di ciò che resta irrisolto. È un film fatto di gesti silenziosi, di rimpianti sussurrati e incontri che sfiorano il passato senza mai afferrarlo, il tutto immerso in un’atmosfera che sa di nostalgia. Un viaggio interiore che si intreccia ai vicoli di una Napoli senza tempo, sospesa tra le sue memorie e l’illusione di un domani diverso.