A volte basta una scena per catturare l’essenza di un film, e nel caso di Cattivi Maestri di Roberto Orazi, quella scena è un campo vuoto, senza tifo, senza il battito frenetico dei gol, ma carico di storie e cicatrici nascoste. La pellicola, presentata alla Festa del Cinema di Roma, nella sezione Special Screenings, è una di quelle opere che esplora il calcio partendo da lontano, dal suo lato più crudo e nascosto, senza la patina dell’eroismo sportivo.
Non ci sono giovanotti in cerca di successo, non si parla di grandi vittorie o di tifoserie impazzite. Questa è la storia di Vincenzo Fuoco, che a 35 anni sceglie di raccontare un passato segnato dagli abusi subiti da un dirigente sportivo, eventi che hanno spezzato il suo sogno di diventare calciatore e lasciato cicatrici indelebili nella sua vita. La telecamera si sofferma sui volti, sugli sguardi, sui silenzi, con una delicatezza che spiazza, soprattutto chi conosce il peso di un passato ingombrante e sa che certe ferite vanno osservate da vicino, senza filtri. In questo, Cattivi Maestri ricorda il cinema più intimo e spietato di Pupi Avati, come in Ultimo minuto, dove le emozioni sono più importanti delle azioni. Qui, il gioco resta sullo sfondo, mentre al centro troviamo un uomo che, come Fuoco, ha visto sgretolarsi i propri sogni proprio nel luogo in cui sperava di realizzarli.
Non è la prima volta che Roberto Orazi si concentra su tematiche scomode. Nel 2009 ha diretto il documentario H.O.T. – Human Organ Traffic, realizzato insieme al giornalista Alessandro Gilioli, che indaga sul traffico illegale di organi. Il film solleva domande inquietanti: c’è chi è disposto a vendere un proprio organo per denaro, sacrificando una parte di sé per necessità economiche. In Cattivi Maestri, punta i riflettori su un mondo che è una sorta di zona franca da ogni controllo e da ogni responsabilità sociale.

Fuoco sceglie di mettere in scena i suoi tormenti e di condividerli con il pubblico. Non per trovare compassione o applausi, ma per evitare che i giovani calciatori finiscano nelle stesse zone d’ombra che ha conosciuto lui. Eppure, in questo racconto ruvido e senza compromessi, c’è una strana bellezza, un’intensità che ti prende alla sprovvista. Sembra quasi di camminare accanto a lui, su quel campo, mentre lotta contro i fantasmi del suo passato. In una delle scene più potenti, Fuoco guarda da lontano il ragazzo che era, come se potesse ancora rivedere il giovane che inseguiva il pallone con la leggerezza di chi sogna in grande. E noi, come lui, siamo costretti a fare i conti con quel passato.
Le ambientazioni del film sono come un salto tra realtà e palcoscenico, un gioco di meta-cinema che svela il racconto da nuove angolazioni. amplifica il fascino del racconto. Da una parte, le vere atmosfere della provincia dove Fuoco è cresciuto; dall’altra, set teatrali che riportano in vita i luoghi della sua infanzia con la precisione di un ricordo nostalgico.
Il paragone con certi film sportivi americani viene naturale, ma è solo un’apparenza. Cattivi Maestri non è Rocky che si alza dall’angolo, non è il trionfo eroico dell’underdog. È un racconto che scava, che smonta il mito del “puoi farcela se ci credi”. Perché Fuoco non ce l’ha fatta, e ci dice che va bene anche così, che a volte la vittoria più grande è imparare a convivere con ciò che si è diventati.