In ogni guerra, giusta o sbagliata che sia, i bambini sono sempre le vittime più colpite. Non solo quelli che non sopravvivranno al conflitto, ma anche quelli che lo vivono quotidianamente, segnati da bombe che esplodono vicine, da città distrutte che una volta erano il loro terreno di gioco, e da genitori che partono al fronte senza la certezza di un ritorno. Questi bambini, troppo presto, devono affrontare una realtà fatta di violenza, perdita e paura.
Serve una sensibilità rara per dare voce a queste esperienze. Forse solo uno sguardo femminile può cogliere appieno la complessità di ciò che accade quando l’infanzia viene brutalmente interrotta. Ci è riuscita Alexandrina Turcan, 32 anni, moldava, ex attrice e fotomodella, che ha deciso di abbandonare la sua carriera per qualcosa di più grande. Si è recata a Borodyanka, una piccola comunità ucraina nel distretto di Buča, nell’oblast’ di Kiev, per osservare con i propri occhi cosa resta di un luogo segnato dalla guerra, a un anno dall’inizio del conflitto.

“Prima di girare il documentario,” ha raccontato, “ho camminato a lungo per la città, attraversando parchi giochi deserti, senza più l’eco delle risate dei bambini. Durante queste passeggiate ho incontrato Volodymir, Vitalyi e Matviy, e da quei incontri è nato questo progetto”. We Want to Live Here, il suo primo documentario, prodotto da Sean Penn e distribuito da Prem1ere Film, ha vinto la menzione speciale alla 22° edizione di Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma.
L’esordio di Alexandrina Turcan è stato di grande impatto: “Essere attrice e modella, a un certo punto, diventa limitante quando senti di avere qualcosa di più profondo da esprimere”. Ed è proprio attraverso questo documentario che ha trovato la sua vera voce: uno sguardo delicato, quasi materno, che non si impone mai con giudizi sui suoi giovani protagonisti, ma li osserva con rispetto e comprensione, riuscendo a cogliere la loro forza e fragilità senza prevaricare.
La sua opera racconta una mascolinità distorta fin dalla tenera età. Bambini che non possono permettersi di avere paura, che devono essere forti e pronti a combattere, senza tempo per l’innocenza. “Se avessi Putin davanti, lo ucciderei,” affermano i ragazzini, abituati a vivere in una guerra che viene loro insegnata come “giusta”. Costretti a crescere con modelli imposti da una società che li forgia nell’odio, questi bambini, diventati adulti troppo presto, vedono i loro sogni trasformarsi in incubi di vendetta e sopravvivenza.
Nessuno di loro parla di quello che vorrebbe diventare da grande; piuttosto, discorrono di come combatteranno o uccideranno un dittatore. La vita è scandita tra la boxe e la preghiera: lo sport e la fede sono i pilastri che tengono unita questa comunità, che vuole disperatamente continuare a vivere lì, nonostante tutto. “La boxe,” spiega Turcan, “è solo un pretesto per creare legami. Non è solo il gesto in sé, ma attorno al maestro di boxe si è formato un gruppo che preserva valori fondamentali. I ragazzi non vanno più a scuola, perché molte non esistono più, e fanno lezione dove possono, persino da remoto. Lo sport è una via di fuga, mentre la preghiera dà speranza e conforto”.
Un aspetto che ha colpito la regista è stato il modo in cui i media hanno utilizzato questa comunità durante la guerra: intervistata, raccontata e poi dimenticata. Politici e giornalisti sono passati, hanno promesso aiuti che non sono mai arrivati, lasciando un senso di abbandono dietro di loro.
“Anche io mi sono chiesta più volte se stessi facendo la cosa giusta,” ha confidato Turcan, “ma mi sono ripromessa che una volta finito il film, non avrei mai abbandonato questi ragazzi. Conquistare la loro fiducia è stato un percorso difficile, ma alla fine si sono aperti. Oggi siamo amici, e presto li porterò a vedere il documentario. Non l’hanno ancora visto e non vedo l’ora di sapere cosa ne penseranno”.