L’arte di essere felici (L’art d’etre heureux), presentato in concorso alla 19. Edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Progressive Cinema, incanta per freschezza e anticonformismo. Richiama alla mente il cinema di Eric Rohmer, ma con un tocco di leggerezza che non scivola mai nella superficialità. Chi non desidera la felicità, in fondo? E cos’è davvero questa chimera così sfuggente? Un momento di pura gioia? Un lungo periodo senza conflitti? O forse è uno stato d’animo che non ha nulla a che fare con le circostanze esterne?
Il regista francese Stefan Liberski lascia che sia il suo protagonista a trovare la chiave di lettura di quel che resta della sua vita. Jean-Yves Machond (uno strepitoso Benoît Poelvoorde), è un pittore di fama mondiale, ma anche un uomo visibilmente stanco e deluso, o forse solo malinconico. Un giorno, decide di dare una svolta alla sua vita. Parte per una piccola cittadina della Normandia, in cerca di ispirazione, con il sogno di creare un’opera definitiva, quella che lo renderà immortale agli occhi del mondo.

Ma la sua ricerca di un capolavoro lo porta a incrociare una serie di personaggi locali, ciascuno con il proprio mondo bizzarro e affascinante. Tra questi, ci sono l’affabile Bagnoule e la talentuosa Cécile. Questi incontri lo distolgono dal suo obiettivo, e gradualmente, Machond si ritrova di fronte al suo desiderio più intimo e nascosto: non la gloria, ma essere semplicemente un uomo felice.
Convinto che una casetta fronte mare, modesta ma poetica, possa essere la chiave per ritrovare pace e ispirazione, Machond si illude che la riconnessione con la natura gli restituirà ciò che ha perso. Ma presto si rende conto che i suoi fantasmi lo seguono ovunque. La distanza non cancella il dolore per una figlia lontana, forse persa in Cina, né la sofferenza per un amore passato. Paradossalmente, è proprio un’improbabile compagnia di amici sgangherati a offrirgli, inconsapevolmente, una via d’uscita. Da un lato, lo “salvano” dalla sua ossessione per il successo, dall’altro lo incastrano in un nuovo mondo fatto di piccole cose, di cene conviviali, di sguardi sul mare e di amori da ricordare o vivere, nonostante le bizzarre curve del destino.
l personaggio di Machond è di grande interesse per Liberski perché racconta la storia di una fuga dalla realtà molto contemporanea. Il regista spiega: “Oggi più che mai, le persone si perdono nelle immagini o si rifugiano in un bla-bla fatto di concetti e idee, avvitate su se stesse. Ho voluto realizzare una commedia sulla negazione della realtà, di cui soffre anche Machond, un artista concettuale”. Jean-Yves, infatti, sogna un’evoluzione, ma è intrappolato nell’immaginario che ha costruito attorno a sé. Il trasferimento in Normandia, con il desiderio di abbracciare lo spirito degli Impressionisti, rivela il suo spirito critico e una sorprendente autoironia, che lo salva sempre nei momenti di naufragio emotivo.
Il film è tratto liberamente dal romanzo La Dilution de l’artiste di Jean-Philippe Delhomme. Liberski racconta come l’idea sia nata quasi per gioco, da una conversazione letteraria con Poelvoorde: “Parliamo di libri e letteratura da quando ci conosciamo, più che di cinema. Un giorno ci siamo accorti che entrambi amavamo i testi di Delhomme e abbiamo iniziato a immaginare un adattamento di uno dei suoi romanzi”. Da quel momento, il progetto ha preso vita.