“Cento Domeniche” sembra essere stato oggetto di una rigorosa ricerca. “In Italia ci sono circa 12 milioni di operai che sostengo questo paese. Sono loro che aiutano la nostra economia ad andare avanti, persone che da decenni sono state abbandonate.” Con queste parole Antonio Albanese introduce “Cento domeniche”, il suo quinto lavoro da regista, presentato alla Festa del Cinema di Roma, nella sezione Grand Public.
“Arrivo da una famiglia operaia, a 15 anni ho fatto l’operaio io stesso per quasi sette anni. Raccogliendo tante storie simili mi sono detto: potevo essere uno di loro”, racconta il regista.
La storia è quella di Antonio Riva, una delle tante vittime dei crack bancari che hanno travolto le esistenze di centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori su e giù per la penisola. Cento domeniche sono infatti quelle che servono per costruirsi una casa. Solitamente nel weekend, dopo aver lavorato tutta la settimana, mattone su mattone, sacrifici su sacrifici.
“Quello che Antonio subisce è un tradimento. In quella provincia operosa dove è cresciuto, della banca del paese ci si è sempre fidati – aggiunge Albanese – Per tutti la banca è sempre stata il confessionale: conosce vita, morte e miracoli di tutta quella comunità”.
Cento Domeniche è silenzioso, misurato e punteggiato. La sua sobrietà è evidente fin dall’inizio, in un’apertura estesa in cui assistiamo alla reazione di incredulità del protagonista, a cui subentra lo smarrimento e l’angoscia.

Dopo “Contromano”, un film di denuncia sull’immigrazione, Albanese conferma la sua capacità di catturare la demolizione dell’animo di persone ancora capaci di vivere una vita serena fatta di piccole cose e di relazioni autentiche, mentre il contratto sociale tra il cittadino e il sistema viene strappato via dalla rapacità del neoliberismo.
Il film dipinge un quadro in cui il sistema bancario costringe il protagonista a muoversi in una serie di regole e procedure insensibili che lo umiliano e lo privano della sua dignità. Il linguaggio disumanizzante e le pratiche standardizzate lo costringono a conformarsi ai dettami del sistema piuttosto che fa valere i suoi diritti.
Racconta Albanese: “Abbiamo scoperto essere umani talmente carichi di vergogna che non hanno voluto uscire di casa per mesi, si vergognavano della nuova condizione. A quel punto neanche l’affetto e il conforto di chi ci vuole bene sembra più̀ sufficiente a reggere l’onda d’urto della vergogna. Perché di quel mostruoso raggiro, ingiustamente, ci si sente anche responsabili”.
Un uso intelligente della simbologia visiva trascina lo spettatore nel caos finanziario che investe Antonio e mette in discussione la mancanza di umanità del sistema. Spinge a riflettere su come la società tratta i suoi membri più vulnerabili e sull’importanza della solidarietà in un mondo sempre più avido.
Una delle caratteristiche distintive dei film di Albanese è la sorprendente capacità di trovare il cuore morale e l’umanità intrinseca dei suoi personaggi. La colonna sonora è minimale, si tratta solo di un impulso minaccioso nei momenti di tensione, che ci ricorda sottilmente il generoso ma sovraccaricato cuore del protagonista. Non siamo di fronte ad un film paternalista nel raccontare la perdita di certezze, ma di un riuscito tentativo di intercettare il presente attraverso un personaggio che incarna una crisi intima e mette in evidenza le ferite che provoca la logica del capitalismo e le cicatrici che lascia non sui singoli ma su intere comunità.