Super Happy Forever, super felici per sempre, il film di Kohei Igarashi presentato alle Giornate degli Autori alla Mostra internazionale del Cinema di Venezia ci pone una domanda semplice. Che cosa è la felicità, o meglio, cosa ci può rendere super felici per sempre? Forse un seminario sulla felicità, oppure succhiare una zuppa take-away sul marciapiede con il nostro amato? Oppure guadagnarsi il pane, con un onesto lavoro in un paese lontano? La felicità esiste per sempre anche se si manifesta per attimi, sembra dirci Kohei Igarashi.
Scorre con dialoghi essenziali e tanto silenzio, immagini limpide, personaggi sinceri, il bel film della produzione nipponica-francese Mld Films & Nobo Llc, dove gli attori Hiroki Sano e Yoshinori Miyata interpretano se stessi. Tutto si svolge a Atami, città costiera di Izu, località balneare di Tokyo, dove, con l’amico Miyata, Sano ritorna nel luogo in cui cinque anni prima si era innamorato della moglie Nagi, morta improvvisamente nel sonno.
La trama del film nasce dal lavoro collettivo del regista Kohei Igarashi con i principali interpreti e si sviluppa nell’arco di cinque anni, con la lunga parentesi del Covid. Hiroki Sano e Yoshinori Miyata nel 2018 propongono al regista di essere loro stessi i personaggi di un film attorno ai quali costruire una storia. Dopo un primo incontro nel 2019, il regista chiede loro di scrivere una trama e di sottoporgliela, da qui un costante dialogo che ha dato vita alle fondamenta di Super Happy Forever. “Poi il Covid è arrivato e per un po’ è stato impossibile immaginare qualcosa – racconta il regista nell’intervista di presentazione del film –. Mi è successa un’altra cosa: nel 2021 ho perso un amico del liceo. Aveva trent’anni, surfava ed era in buona salute, ma una mattina morì improvvisamente. Ero profondamente scioccato. L’ho trovato difficile da accettare, o forse non sapevo davvero cosa o come pensare della sua morte. Questa è la sensazione ho cercato di esprimermi nel film”. Super Happy Forever affronta quindi in modo delicato il tema della perdita di una persona cara, lasciando spazio anche a momenti di ironia e di leggerezza.
Il film è girato con studiati movimenti di camera e scelte sonore per distinguere in tre parti il racconto del presente, quello del passato e il ritorno al presente. Una trama ben costruita che rivela la sua forma piano piano. La prima lunga parte è ovattata dal dolore sordo della perdita. I due amici Sano e Miyata si trovano fuori stagione in questa località di mare alquanto demodé, ma che i giovani giapponesi hanno riscoperto dopo il Covid. Arredi vintage anni Ottanta, si direbbe, colori pallidi, prevalgono tinte tenui. Sano è annientato dalla perdita della moglie. Con una enigmatica t-shirt con scritta Umbro a caratteri cubitali, vaga senza meta, si trascina nelle ore, fa cose senza senso. I lunghi silenzi si alternano a reazioni impreviste e rabbiose. Intanto Miyata, che offre amicizia e supporto, frequenta un seminario sulla felicità, titolo SHF, “Super Happy Forever” e l’incontro con altre corsiste non è utile a distrarsi dal dolore. L’unica reazione di Sano è mettersi alla ricerca di un berretto con visiera rosso, perso dalla moglie cinque anni prima e regalatole da lui il giorno in cui si erano conosciuti.
All’apparire nel corridoio dell’albergo di una inserviente vietnamita, An, che rassetta le stanze, interpretata da Hoang Nh Quynh, giovane donna che recita per la prima volta, la camera con un piano sequenza lungo la parete ci porta ad un flashback, cinque anni prima, quando Nagi (Nairu Yamamoto) aveva alloggiato proprio lì. Cambia il clima, cambia l’atmosfera. Assistiamo in diretta al primo incontro tra Nagi e Sano, al delicato approccio, emozionato, sorpreso, alla prudenza romantica degli sguardi e delle parole, ai sorrisi timidi. Siamo presenti alla scena “clou”, che altro non è che una minestra di noodle bollente da mangiare insieme sul marciapiede a notte fonda, una cosa che, dice Nagi, la potrebbe rendere “super happy forever”. E quindi qui, ora che Nagi non c’è più, perché pensare che anche questo momento non continui a vivere da solo. Magari nel ritrovato berrettino rosso, indossato da un’altra persona.
Sulla scelta del titolo, dice il regista: “Prima di tutto, volevo un titolo semplice e felice. Ed è anche una “preghiera”. Penso che tutti vogliano essere felice e vuole essere sempre felice, anche io e tutti gli altri, anche quelli che credono a dubbi seminari sulle continue difficoltà e delusioni della vita. Il film sembra una storia triste se la guardi in un’unica linea temporale. Ma se non guardi il tempo in modo lineare, i momenti felici non sono persi per sempre. Spero che il pubblico lasci il film con questa impressione”. La presenza nella colonna sonora di Beyond the Sea come tema chiave, canticchiato, e in altre versioni, oltre a quella originale di Bobby Darin sui titoli di coda, che ben si sposa all’ambiente retò di Atami, suggerisce in fondo una chiave di lettura che cerca di rincuorare.