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Dadapolis, il docufilm su Napoli salvata dai suoi artisti

Presentato a Venezia 81 alle Giornate degli Autori

Monica StranierobyMonica Straniero
Dadapolis, il docufilm su Napoli salvata dai suoi artisti
Time: 5 mins read

La Napoli contemporanea degli artisti che lì restano, pur lavorando altrove, e che la vivono, nelle sue trasformazioni, contraddizioni e che ne rappresentano l’essenza profonda è il racconto di Dadapolis. Caleidoscopio napoletano, docufilm scritto e diretto da Carlo Luglio e Fabio Gargano, ispirato all’omonimo fondamentale testo antologico del 1992 di Fabrizia Ramondino e Andreas Friedrich Müller. Nella difficile contemporaneità di Napoli, il documentario dice che la cultura e i suoi artisti sono ancora il sangue che scorre nelle vene della città e che la salva e tiene in vita. lI film è stato presentato alle Giornate degli Autori-Confronti alla 81° Mostra internazionale di Arte Cinematografica a Venezia.

Il documentario raccoglie le voci di una sessantina di artisti nell’ambito della scrittura, della fotografia, dell’arte, della musica, della ricerca, del giornalismo. È dedicato a tre figure centrali per Napoli, scomparse durante la registrazione: il produttore stesso e interprete Gaetano Di Vaio, il poeta, drammaturgo e regista teatrale Enzo Moscato ai quali i titoli di coda uniscono il ricordo di Cristian Vollaro, posteggiatore.

Tra gli artisti che appaiono c’è James Senese, musicista ma guru indiscusso, che, giustamente, pontifica dall’alto di blocchi di cemento pittati, insieme allo scrittore Peppe Lanzetta. Ci sono fotografi come Antonio Biasucci, musicisti come Nelson che ha composto la canzone originale del film o come il duo Ebanesis, Viviana e Serena, scrittori come Viola Ardone che pone il tema dei problemi novecenteschi con i quali si dibatte la città, c’è lo psicanalista Guelfo Margherita che interroga sulla “struttura oppressiva” che oggi schiaccia con forza la libertà degli artisti. È lui che lancia gli elementi che declineranno le quattro parti del film, mare, terra, fuoco, aria, ovvero tutto ciò che avvolge il Vesuvio e Napoli.

La realtà di oggi è diversa e il documentario è altro, ma il titolo del film rimanda all’antologia Dadapolis di Fabrizia Remondino e Andreas F. Müller. La scrittrice ha spiegato in un’intervista a Wanda Marra per la Rai l’origine di questa parola: “Il titolo del libro Dadapolis vuole essere un gioco di parole tra dadà, giocattolo per bambini, cavallino a dondolo, e città. Ma i giochi dei bambini sono cose molto serie: il dadaismo intende l’arte come un gioco serio. Napoli è una città dadaista, una composizione. Come l’avanguardia intorno alla Prima Guerra Mondiale cercava delle forme di espressione diverse, per capire Napoli bisogna trovare un'”altra” forma di espressione, perché Napoli stessa è una forma di espressione diversa dalle altre città”.

I sessanta artisti affrontano, per gruppi di confronto e di discussione, in location diverse, chi sulla banchina del porto, chi sotto il pontile, chi su un belvedere, domande forti sul futuro di Napoli. Scenari non del centro storico (e turistico). Infatti, come sono assenti nel film i grandi nomi dello show biz made in Napoli, diciamo così, vedi Sorrentino, Servillo, Martone o Iaia Forte e Lina Sastri, così non ci sono Piazza del Plebiscito, i Quartieri Spagnoli e Spaccanapoli, Santa Chiara o via dei Tribunali. Troviamo invece vasti scenari periferici, e soprattutto quelli dall’eterno incerto destino, lungo la costa, con il Vesuvio di sfondo, a partire dal porto di Napoli e da Bagnoli, con immagini molto belle nonostante l’archeologia industriale ammalorata, con riprese dall’alto, che poi si aprono sul golfo restituendo un’immagine di unicità e bellezza.

La stessa Remondino, autrice dell’antologia suggeriva, riguardo alla visione della città di Napoli, l’interesse per le periferie, rispetto all’epoca in cui uscì la raccolta di brani scrittori che si erano occupati della città: “… oggi c’è un’enorme crescita delle periferie: Napoli ormai è una megalopoli. Nelle periferie che sono sorte è possibile vedere come in alcuni luoghi viene riprodotto lo stesso mondo della città vecchia. Rifacendo oggi Dadapolis, darei più posto a queste periferie”.

La domanda centrale dalla quale si inizia è sull’identità di Napoli, la sua cultura e il suo futuro, a partire da “una lingua che non ha il tempo futuro, e che cambia di giorno in giorno”. I confronti si alternano, intervallati dai bellissimi dialoghi filosofici tra James Senese e Lanzetta seduti sul grande altare di cemento davanti al mare. “Cos’è il mare? Il mare è vita, noi non respiriamo perché c’è aria, ma perché guardiamo il mare. Il mare è Dio”. Non a caso un prete aveva detto a Senese: “Lei parla meglio di noi”. Lanzetta che indica una nave container nel porto che adotta sentimentalmente in quanto “vecchia nave ripudiata dall’armatore e abbandonata”.

Non mancano nelle discussioni tra i gruppi di artisti le critiche severe ai vulnus della città, mai migliorati, se possibile peggiorati. “Napoli era la città di Vico e Serao, oggi è una mangerìa. Napoli sta diventando uno stereotipo, è un elogio del carboidrato, in centro non ci sono più gli studenti”. E c’è un male più grande ancora che riguarda tutti quanti: “Il bene, il male, è tutto uguale, tutto è diventato solo rappresentazione”.

Ma l’arte? Il mercato? I puristi dicono “chi fa l’arte la fa per se stesso”, i più laici che il mercato è fonte di innovazione e quindi “di ispirazione”. Il confronto viene alternato all’esecuzione di opere, brani musicali, teatrali, canti, performance, tra vecchie e nuove generazioni partenopee si sente scorrere una cultura profonda.

La parola passa ad Enzo Moscato, ed è definitiva, quasi un testamento morale: “Il teatro è individuazione, fa emergere l’individuo. A me è servito tutto dell’esperienza teatrale, anche la sconfitta mi è servita. Artaud ci insegna che l’arte è rischio, hasard. Ho avuto la chiamata, la vocatio, a far questo mestiere ed è una cosa straordinaria tenere in vita questa arte antichissima, che senza l’umano non è possibile, occorre essere forti e fragili insieme”.

Si parla di Napoli e delle sue trasformazioni, si vedono le opere dei grandi writer della città, dagli scheletri di Arp, memento mori per chi ha perso valori, ai grandi volti della tribù umana di Jorit. Si parla della grande ferita e sconfitta di Bagnoli, dopo la chiusura della fabbrica Italsider 30 anni fa, con la giornalista Francesca Saturnino, e del cambiamento paesaggio. Si parla del porto di Napoli, porta del Sud del mondo, “da cui partono tir pieni di monnezza che nel silenzio generale se ne vanno verso altri paesi”. C’è Viola Ardone, che ricorda come tutto in città sia fermo ancora ai problemi novecenteschi, irrisolvibili, viabilità, traffico, rifiuti, quando alti temi urgenti insorgono, come il problema della casa.

Un grande rito collettivo, Dadapolis, che ha il pregio di dare forma a un coro delle voci di Napoli e di indicare la strada dell’ascolto della cultura. Il graffito con il tuffatore che si tuffa verso il futuro lascia sperare. “Siamo un popolo che ha la capacità di resistere” e se c’è una speranza è davvero nella grande creatività e capacità di credere profondamente nella cultura come bene individuale e collettivo, da parte della comunità civile.

 

 

 

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Monica Straniero

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