Il concorso dell’ottantesima mostra del cinema di Venezia si è chiuso con gli alti e bassi che hanno
caratterizzato l’intero palinsesto. Decisamente negativo il giudizio su Holly, della regista belga Fien
Troch, premiata nel 2016 nella sezione orizzonti per Home. Holly racconta la storia di una
quindicenne, il cui nome dà il titolo al film, emarginata dai suoi coetanei. Una mattina, la ragazza
chiama scuola dicendo che quel giorno sarebbe restata a casa perché colpita da un brutto
presentimento. Poco dopo, nell’istituto scoppia un incendio in cui muoiono diversi studenti. Anna,
una delle docenti, affascinata dalla strana premonizione di Holly, la invita a far parte del gruppo di
volontari che assistono parenti e familiari delle vittime. La sola presenza di Holly trasmette
tranquillità, calore e speranza. Presto però tutti vogliono incontrarla e sentire l’energia catartica che
emana da lei, pensando che la giovane abbia dei poteri sovrannaturali e taumaturgici, spingendo
la situazione fino a un punto di non ritorno.
Holly è un film su un sentimento comune, l’impossibilità di accettare ciò che accade senza un’apparente giustificazione o logica spiegazione, la necessità di aggrapparsi a teorie rassicuranti, fino a credere a inverosimili elementi sovrannaturali. Mette sul piatto delle ottime premesse e parte con una sobrietà stilistica che lascia ben sperare, ma ben presto si sgretola in una confusione di registri narrativi a tratti sconcertante, fino al pasticcio di un finale inaccettabile, sia sul piano cinematografico, sia su quello morale, un finale per giunta involontariamente comico. Un film da dimenticare, insomma, che la buona interpretazione della
giovane Cathalina Geeraerts non riesce minimamente a salvare.

Dopo Holly, arriva il momento di Lubo di Giorgio Diritti, ultimo rappresentante del nutritissimo
contingente italiano in concorso, costituito quest’anno da ben sei film. Interpretato da uno degli
attori europei più bravi, Franz Rogowski, Lubo è un artista di strada che nel 1939 viene chiamato
nell’esercito elvetico a difendere i confini nazionali dal rischio di un’invasione tedesca. Poco tempo
dopo scopre che sua moglie è morta nel tentativo di impedire ai gendarmi di portare via i loro tre
figli piccoli, che, in quanto Jenisch, sono stati strappati alla famiglia, secondo il programma di
rieducazione nazionale per i bambini di strada (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse). Lubo
inizia così la disperata ricerca dei suoi figli e una lotta strenua per ottenere giustizia per il suo
popolo.
Sospeso tra dramma storico e revenge movie, Lubo è un film con molti meriti, in primis
quello di portare alla luce una delle pagine più drammatiche e meno note della storia europea. Nel
2017 il film “Dove cadono le ombre” di Valentina Pedicini aveva già raccontato la tragedia dei
Weiße Zigeuner, gli “zingari bianchi”: migliaia di bambini, per tutto il ‘900, sono stati rinchiusi in
ospedali psichiatrici od orfanotrofi e poi abusati, sterilizzati, sottoposti a elettroshock per estirpare
loro il nefasto gene del “nomadismo” e renderli persone “normali”, da affidare a nuove famiglie di
svizzeri “puri”. Lubo riprende questa storia, con il grande rigore morale del cinema di Giorgio
Diritti, e si snoda lungo i 180 minuti di durata con il passo lento di un grande affresco storico.
L’elemento di maggior forza del film, tuttavia, è l’interpretazione di Rogowski, uno dei più bravi
attori europei, intenso e camaleontico, che si carica il film sulle spalle e lo trascina per le tre ore di
durata, facendolo anche uscire da alcune secche narrative e cadute di ritmo.

Tra i maggiori candidati ai premi finali si inserisce sicuramente anche Kobieta Z, di Małgorzata
Szumowska e Michał Englert, film che attraversa quarantacinque anni della vita di Aniela Wesoły,
raccontando il suo percorso alla ricerca della libertà come donna trans, mentre sullo sfondo la
Polonia vive il passaggio dal comunismo al capitalismo. Pudico, elegante, interpretato
magnificamente dalla strepitosa Małgorzata Hajewska-Krzysztofik, Kobieta Z riesce a raccontare
in parallelo due trasformazioni problematiche, quella di Andrzej in Aniesa e quella della Polonia in
stato capitalista, intrecciando le due vicende senza mai scivolare in stereotipi, costruendo un
racconto fatto di brevi e intense pennellate narrative.

Memory di Michel Franco, con Jessica Chastain, una delle poche star a calcare il tappeto rosso, è
un dramma molto più intimo delle ultime prove del regista messicano (Nuevo Orden, Sundown)
che racconta l’avvicinamento di un uomo e una donna entrambi segnati da traumi profondi. Sylvia
È una giovane donna che non riesce a dimenticare o a fare i conti con il suo passato, Saul invece
è colpito da una forma di demenza che inizia a fargli dimenticare pezzi della sua vita. La
specularità della loro memoria emotiva li spingerà l’uno verso l’altra, nonostante le ingombranti
macerie familiari a ostacolarne il rapporto. Memory è un film asciutto, quasi scarnificato: breve,
privo di musiche extradiegetiche, formalmente essenziale, funziona fino al momento in cui si trova
costretto a dare spiegazioni e recuperare il background dei personaggi; nei momenti di “rivelazione”, per tenere fede alla sua impostazione ridotta all’osso, risulta frettoloso se non artefatto.

Veniamo alla sorpresa finale, Hors Saison di Stéphane Brizé. Sorpresa relativa, perché Brizé è
ormai da anni uno dei registi francesi dallo sguardo più interessante, autore di opere in grado di
stimolare riflessioni importanti sulle contraddizioni e le asimmetrie del tempo in cui viviamo.
Tuttavia, Hors-Saison è di più, uno dei film più riusciti dell’intero concorso, ispirato e appoggiato
su un equilibrio perfetto tra commedia e dramma, commovente e intenso. La storia è quella di
Mathieu (Guillaume Canet), attore di cinema famoso e amato che, arrivato alla soglia dei
cinquanta, va in crisi e molla lo spettacolo teatrale con cui avrebbe debuttato sul palcoscenico e si
rifugia in un grande albergo di una piccola località di mare. Qui, mentre tenta di riannodare i fili
della sua esistenza e della sua carriera, si imbatte in Alice (Alice Rohrwacher, in una delle prove
migliori della sua carriera), donna che aveva lasciato quindici anni prima. L’incontro tra i due riapre
i rimpianti, i dubbi sulle scelte che i due hanno compiuto e quelle che avrebbero potuto compiere,
mettendo entrambi davanti alla scomoda necessità di fare un bilancio delle rispettive vite. Il vero
valore aggiunto di Hors-Saison però sta nel modo in cui la sceneggiatura, scritta dallo stesso
Brizé insieme a Marie Drucker, e la regia raccontano questa storia, con una delicatezza e una
capacità di andare in profondo strepitose, facendo detonare elementi universali in cui è impossibile
non riconoscersi, il tutto con una leggerezza di tocco ispiratissima.

Una nota la merita anche Daaaaaali!, la nuova follia di Quentin Dupieux, fuori concorso, un
divertissment a suo modo geniale che racconta gli incontri, o meglio i tentativi di incontro tra
Salvador Dalì e una giornalista francese che vuole intervistarlo. L’intelligenza irriverente di Dupieux
trasforma il film in un oggetto surrealista, fatto della stessa sostanza dell’opera e del pensiero
dell’artista catalano, ricorsivo e onirico, provocatorio e parodistico. Si ride molto con Daaaaaali!,
dentro a un cinema come quello di Dupieux che ha un’estetica e delle logiche personalissime e
ormai estremamente riconoscibili.
Domani sapremo quale film sarà premiato dalla giuria presieduta da Damien Chazelle.
Appuntamento alle 20:00 per la cerimonia di chiusura.