C’è un musicista seduto al pianoforte a coda Yamaha: niente pubblico, loro due soli nello Studio 509 dell’NHK Broadcasting Center a Tokyo, un gioiello dell’acustica. Attorno hanno una selva di microfoni a stelo o a braccetto, un faro è puntato su spartiti e tasti. Una troupe invisibile e muta di trenta persone li riprende con tre telecamere 4K. Dall’inquadratura di lato o di spalle si passa lentamente al primo piano dell’artista: ha un’ombra di barba sul volto, gli occhiali dalla montatura tonda maculata, l’espressione assorta. Il caschetto liscio con la riga in mezzo scivola su una faccia bellissima e scavata, i capelli bianchi e grigi declinano sulla nuca rasata. Quell’uomo è un genio, si chiama Ryuichi Sakamoto ed è morto a 71 anni il 28 marzo. Morto? No di certo. Perché nessuno che abbia ascoltato la sua musica ha la minima intenzione di lasciarlo andar via.
La discografia di Sakamoto è un prodigio di versatilità. Classico e sperimentatore insieme, ha attraversato contaminandoli Oriente e Occidente: ha fuso il futuro e la tradizione, il pop con l’elettronica e le colonne sonore, la techno, il jazz, l’hip hop e persino la bossa nova. Ha vissuto per la musica fino in fondo sapendo che la fine si stava avvicinando rapidamente. Aveva sconfitto un cancro alla gola dopo una lunga battaglia, quando nel 2021 ha bussato alla porta un altro ospite inopportuno: tumore al retto, la diagnosi dei medici. Il male l’ha fiaccato progressivamente, tanto da impedirgli di fare concerti. Ma non si è fermato. Ha voluto preservare la sua opera per le generazioni di domani: un film-testamento avrebbe riassunto la sua arte. Operazione affidata a dicembre dell’anno scorso al figlio, il regista Neo Sora, e alla moglie-manager Norika. Il risultato è una magia in scintillante bianco e nero – merito della fotografia dell’americano Bill Kirstein – intitolata Opus e proiettata sullo schermo della sala grande del Palazzo del cinema alla Mostra di Venezia.

Il film è un montaggio di 103 minuti e venti titoli, dagli esordi avanguardisti nel ’78 con la Yellow Magic Orchestra fino all’ultimissimo album 12, passando per i temi conduttori di Furyo – il film di Nagisa Oshima in cui recita accanto a David Bowie -, L’ultimo imperatore che gli valse l’Oscar nell’88, Il tè nel deserto e Piccolo Buddha di Bertolucci. Tasselli della ricchissima parabola del maestro giapponese. La musica e basta, zero parole. Con l’eccezione di quattro piccole frasi sussurrate al piano durante la registrazione. Sono momenti di stanchezza: <Let’s go again, ricominciamo>, <questo è difficile>, <ho bisogno di una pausa>. E infine: <Sono andato oltre>. Com’è avvenuta la scelta? Sakamoto aveva già dato la risposta: <Tutto è stato studiato meticolosamente nello storyboard, in modo che le posizioni della telecamera e l’illuminazione cambiassero in modo significativo a ogni pezzo. Sono andato alle riprese un po’ nervoso, pensando che sarebbe stata l’ultima occasione per condividere un’esibizione>. Quanto allo stato d’animo, la spiegazione dice tutto di una persona gentile, semplice, illuminata, dal sorriso accennato e la capacità di toccare emozioni profonde: <Suonare semplicemente alcuni brani al giorno, con molta concentrazione e molta cura, era tutto ciò che potevo fare a questo punto della mia vita>.
Il maestro dirige l’orchestra che è chiusa nelle sue mani. Dita agili, sapienti, elastiche, consapevoli, premono sulla tastiera. Armeggiano sulle chiavi del pianoforte alla ricerca dell’accordo perfetto, con la stessa assoluta precisione di Benedetti Michelangeli senza averne l’ossessione maniacale. Così la sala cinematografica si riempie di note maestose che trasmettono il respiro del mondo, il senso della solitudine, il motore dell’esistenza, il ritmo del tempo che passa inevitabile. La fragilità della malattia messa a nudo e sublimata dal processo creativo si spande nell’aria rarefatta dello studio e da lì, attraverso la telecamera, allo spettatore: elegante, potente, dolorosamente profonda. <Non so quanto mi resta da vivere. Potrebbero essere dieci anni o uno solo. Non ho nessuna certezza. Ma so che voglio fare più musica. Musica che non mi vergognerò di essermi lasciato alle spalle>, confessa Sakamoto nel documentario biografico Coda datato 2017, accarezzando un pianoforte oltraggiato dallo tsunami nucleare di Fukushima.
Opus è qualcosa di diverso è di più. E’ lascito solenne, messa da requiem. L’addio a un musicista irripetibile che è di tutti e di uno in particolare: il figlio Neo, che ha filmato una lettera d’amore al padre. Il finale è la visione triste ma in fondo accudente dello spazio vuoto, davanti al pianoforte rimasto senza padrone. Eppure i tasti si muovono miracolosamente da soli, in completa autonomia: la musica non si perde, non può morire. Merry Christmas mister Sakamoto, ovunque lei sia o non sia ora.