Era il più atteso del nutrito contingente italiano, Io, capitano di Matteo Garrone, undicesimo lungometraggio del regista romano, e per questo motivo può essere anche considerato la delusione più profonda del concorso di Venezia 80. Il film racconta l’odissea di due ragazzi senegalesi, Seydou e Moussa, interpretati dai bravissimi Seydou Sarr e Moustapha Fall, che decidono di lasciare il loro paese e le loro famiglie per tentare di raggiungere l’Europa. Li attende l’inferno del deserto e delle prigioni libiche, con le torture e le umiliazioni, e la traversata del Mediterraneo, su una barca pericolante e gremita, condotta dallo stesso Seydou, che privo di qualsivoglia esperienza nautica tenta riesce a condurre l’imbarcazione sulle coste siciliane.
Io, capitano è un film che manifesta almeno tre problemi piuttosto significativi. In primis, è un film in ritardo sui tempi. Le traversate africane, tratte di disperazione e ispirate dal “mito” dell’Europa, sono ormai argomento tristemente noto, un tema che conosciamo tutti da più di un decennio e su cui nessun governo o istituzione è stato in grado di intervenire significativamente. Affrontarne la messinscena oggi significa avere, nella migliore delle ipotesi, qualcosa da dire, magari di nuovo o importante, o quantomeno uno sguardo personale che rinnovi l’indignazione e tocchi le coscienze. Purtroppo, Io, capitano non aggiunge nulla e anzi, nel suo svolgimento frettoloso e sgonfio non riesce mai a far percepire il dramma autentico dei suoi personaggi, rimane sempre in superficie e scansa la tragedia. Un problema che si riverbera anche sul piano visivo, su cui il film risulta sempre molto pulito, quasi spettacolare, mai ”sporco” come forse il tema avrebbe meritato. Il rischio è quindi quello di una progressiva estetizzazione della tragedia, sensazione che mette decisamente a disagio.
Secondo problema è il punto di partenza della storia. Garrone disegna due protagonisti che partono da una situazione non agiata ma certamente non drammatica: hanno una famiglia che li ama, non vivono guerre o pericoli incombenti, hanno buoni rapporti con la loro comunità di riferimento. Partono in nome del “mito” dell’Europa, perché sognano di diventare musicisti, immaginano che i bianchi un giorno chiederanno loro l’autografo, ma anche questo aspetto, che avrebbe potuto essere estremamente interessante, risulta annacquato e il luccichio dell’occidentalizzazione, al di là delle maglie di varie squadre di calcio che i due indossano, non viene raccontato con particolare forza e alla fine il viaggio di Seydou e Moussa sembra quasi iniziare per capriccio.
Infine, altro elemento che contribuisce a smontare l’efficacia di Io, capitano è l’indecisione nel tono, che talvolta assume la forma di un road movie, altre volte si concede delle parentesi di realismo magico che appaiono sconnesse dal resto del film. Un film che, spiace dirlo così, pecca di profonda superficialità e non rende certamente un buon servizio, in un momento storico così delicato, al tema fondamentale che decide di affrontare.