Luca Guadagnino, con la sua reinvenzione di Suspiria, ha già dimostrato di sapersi muovere con disinvoltura nell’horror e dintorni. Non stupisce quindi che il suo Bones and All – ora in concorso a Venezia e da novembre in alcune sale cinematografiche e su Netflix – sia un film riuscito, una bella trasposizione del romanzo omonimo (in Italia “Fino all’osso”, edito da Panini) scritto Da Camille Deangelis nel 2017.
Siamo infatti proprio nei territori dell’horror, anche se la declinazione di genere può essere fuorviante per inquadrare correttamente un film che è soprattutto una storia d’amore e un racconto di formazione. Ambientato negli States degli anni ’80, Bones and All è infatti racconto di reietti ed emarginati, solo che queste “creature” ai confini della società lo sono per il loro irrefrenabile desiderio di mangiare carne umana. Cannibali, quindi, o meglio “mangiatori” come vengono definiti nel film, esseri umani “speciali” dotati anche di un olfatto fuori dal comune e di un odore caratteristico, che permette loro di riconoscersi e fiutarsi anche a distanza.
Il problema lungo cui si snoda il racconto è quindi quello dell’inaccettabilità del desiderio: che cosa succede, infatti, se la forza che spinge il soggetto a desiderare è tanto forte quanto socialmente inaccettabile? Che cosa succede se i propri desideri “consumano”, in questo caso letteralmente, “l’altro”? Protagonista di questa allegoria è Maren (Taylor Russell), diciottenne che il padre ha cercato faticosamente di tenere lontana dalla sua natura di cannibale, ereditata dalla madre, ora misteriosamente scomparsa.

L’abbandono del padre spinge Maren a un viaggio nelle zone depresse degli States alla ricerca dell’origine del proprio male oscuro, di un modo per conviverci e soprattutto della madre. Lungo questo viaggio incontrerà l’inquietante Sullivan (Marc Rylance), uomo maturo che – dice – mangia solo le persone già morte, e Lee (Timothée Chalamet), un giovane sbandato anche lui incapace di gestire la propria natura, che nasconde un segreto profondo. La struttura è quella del road movie, con tanto di sovrimpressioni a definire le tappe del percorso, attraverso le periferie e gli ambienti suburbani più degradati del Midwest.
Il film di Luca Guadagnino percorre questo viaggio con un’efficace ed elegante oscillazione tra iperrealismo e allegoria, mettendo al centro l’immagine del “corpo divorato” come metafora della diversità e riuscendo a disturbare e scuotere in più di un’occasione, dando vita a momenti decisamente inquietanti e oscuri. Il viaggio di Mauren, inoltre, la porta a incontrare un altro aspetto trasversale e potenzialmente tossico del desiderio, la sua capacità, cioè, di “consumare” gli altri attraverso il proprio soddisfacimento, talvolta spolpandoli “fino all’osso”.
Girato con un perfetto senso del ritmo, un’impeccabile direzione degli attori e una cura estrema per la componente sonora, il primo film in lingua inglese di Luca Guadagnino è un’opera matura e controllata, che fa del regista siciliano uno dei registi più internazionali del nostro cinema.