Che vuol dire essere la voce italiana di Clint Eastwood? “È un piacere. Ho enorme stima di lui, come attore e come regista: un artista cresciuto negli anni fino a diventare bravissimo. In principio non mi convinceva, era rigido come un palo del telegrafo. Sergio Leone diceva di lui: ‘Ha solo due espressioni, con o senza sigaro in bocca’. Adesso lo considero uno dei migliori in assoluto”.”
Michele Kalamera, classe 1939, nato a Conegliano da padre siciliano e madre veneta, è uno strano miscuglio di razze. Non per niente il nonno paterno era di Patrasso – ecco da dove viene la lettera kappa del cognome, adeguato in Calamera durante il fascismo – e quello materno bavarese.
Il melting pot si è conficcato nella sua gola, fino a farlo diventare un autentico trasformista della parola. Il principe riconosciuto (e riconoscibilissimo) del doppiaggio, il re della Fono Roma, il bulldozer come lo chiamano i colleghi più giovani – ‘Michele ci stende tutti’. Capace di rappresentare mille personaggi e mille voci. Una su tutte: quella del grande Clint.

Quand’è cominciato il vostro sodalizio?
“Nel 1976. Esordii doppiandolo ne Il texano dagli occhi di ghiaccio, che lui stesso aveva diretto. Ci teneva moltissimo e seguì personalmente i provini in Europa. Scelse me”.
Non era contento dei suoi predecessori?
“Enrico Maria Salerno lo aveva doppiato benissimo nella trilogia del dollaro di Sergio Leone. E dopo di lui Colizzi, Peppino Rinaldi, Nando Gazzolo, Pino Locchi. Tutti molto esperti, ma Eastwood voleva qualcosa di diverso. Non era solo questione del timbro di voce, quanto di interpretazione”.
E’ il motivo per cui le affidò l’ispettore Callaghan?
“Erano gli anni in cui portava al cinema questo poliziotto di San Francisco che agisce ai limiti della legalità, alle prese con l’America violenta e spietata. Un duro nel senso classico con la Smith & Wesson e i proiettili 44 Magnum. Il mio primo approccio fu Cielo di piombo, ispettore Callaghan, terzo film della serie”.
Il quarto è entrato nella leggenda.
“Parliamo dell’83. Il titolo originale è Sudden Impact, che non rendeva bene tradotto letteralmente. Finché involontariamente risolsi il problema”.
Che cosa accadde?
“Eravamo nello studio di registrazione. Sullo schermo passa la scena della rapina in un caffè, Callaghan irrompe e comincia a sparare ma uno dei banditi minaccia con la pistola la barista. Clint gli si para di fronte, lo tiene sotto tiro: sono faccia a faccia, è un momento di grande tensione. Io guardo il copione sul leggio e non trovo scritto niente. Niente di niente, nessuna battuta da dire. La scena è muta e passano i secondi. Per un doppiatore il silenzio è un tempo infinito. Una maledizione. Istintivamente digrigno i denti e incito il criminale al microfono strisciando le parole: coraggio, fatti ammazzare. Il distributore dietro di me esulta con un boato. E urla: cazzo, questa sì che è una frase eccezionale”.
Così il titolo italiano del film è diventato Coraggio… fatti ammazzare. Giusto?
“Esattamente. Il senso corrisponde alla battuta originale che è: Go ahead, make my day. Cioè qualcosa del tipo: avanti, dà un significato alla mia giornata. Un’idea brillante nata per caso”.

L’American Film Institute l’ha piazzata al sesto posto nella classifica delle migliori citazioni cinematografiche di sempre.
“Non lo sapevo. Quali sono le prime cinque?”.
Francamente me ne infischio pronunciata da Clark Gable in Via col vento. Seguita da Il padrino, Fronte del porto, Il mago di Oz. Subito dopo c’è Play it, Sam detta da Ingrid Bergman in Casablanca.
“Mica male, sono entrato nella storia del cinema”.
Non solo per questo. Il professor Gerardo Di Cola le ha riservato un posto d’onore ne Le voci del tempo perduto, monumentale enciclopedia del doppiaggio italiano. Che effetto fa?
“Fare il doppiatore mi ha permesso di incarnare un numero immenso di caratteri. E’ bello sapere che di tutto questo lavoro resta una traccia nella memoria del pubblico”.

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Però l’inizio è stato da attore a tutto tondo. Perché ha scelto altrimenti?
“È una storia lunga”.
La racconti.
“Mio padre, nisseno di Serradifalco, era maresciallo dei carabinieri. Io e mia madre abbiamo girato l’Italia seguendolo. Da ragazzino avevo due passioni: lo spettacolo e la medicina. Dopo il liceo classico me ne sono andato a Roma con quattro lire in tasca. Mi sono iscritto alla Sapienza, volevo diventare chirurgo. Ma contemporaneamente ho tentato la carta dell’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico. Selezione terribile, i miei esaminatori erano i mostri sacri Gino Cervi, Orazio Costa Giovangigli e Sergio Tofano. Tra i professori c’era gente come Strehler e Giorgio Bassani. Ammettevano 30 ragazzi su 600 candidati, non avevo speranze”.
E invece?
“Un mese dopo arrivò la telefonata: ero stato scelto. Mio padre reagì malissimo quando glielo dissi: morirai di fame, sacramentò. Tanti anni dopo ha capito che quello era il mio destino ed è stato orgoglioso di me. Ma all’epoca mi voleva dottore e io invece cominciai a salire sul palcoscenico. Piccole parti, finché con Gigi Proietti fondammo il Teatro Stabile dell’Aquila. Nel mio palmares conto sessanta lavori teatrali e un buon numero di radiodrammi”.
Carriera ormai delineata?
“Così credevo. Con il teatro però si portavano pochi soldi a casa. Incontrai Fede Arnaud, storica direttrice del doppiaggio che era stata repubblichina e ausiliaria della X Mas. Un personaggio straordinario al di là del credo politico. Mi prese sotto la sua ala e mi ritrovai nel ’66 con il copione di un musicarello sul leggio: davo la voce all’americano Mark Damon in Dio, come ti amo!, protagonista Gigliola Cinquetti. Per ogni turno di doppiaggio tiravo su 18mila lire, contro le 4mila che prendevo in teatro. E’ diventata la mia professione. Una scelta senza ritorno: con lo stipendio via via ho comprato i mobili di casa e alla fine la casa”.
A quanti film ha preso parte?
“Più o meno 25mila in 56 anni. Da protagonista sono almeno 5mila”.
Eastwood e tanti altri. Qualche nome pescato dal mucchio?
“Ho cominciato con i vecchi divi: Gregory Peck, Clark Gable, Gary Cooper, Cary Grant”.
Ne dica ancora.
“Nicholson, Redford, Robert Duvall, Michael Caine, Max Von Sydow, Roger Moore, Burt Reynolds, Sutherland, Anthony Hopkins, Delon, Kirk Douglas, Charlton Heston, Steve McQueen. Vado avanti? Ben Kinsley, Christopher Lee, Palance, David Bowie in Furyo, eccetera eccetera. E i cartoni animati: dai film Disney a Winnie the Pooh, dai Muppet a Mister Magoo. Insomma si fa prima a elencare quelli che non ho doppiato”.

Chi le ha dato più soddisfazione?
“Molti. Steve Martin, per esempio: una mitraglia di parole, doppiarlo è una continua acrobazia. C’è da diventare matti con lui. L’ho incontrato a Roma e ci siamo abbracciati, è un tipo molto simpatico. Mi ha chiesto: come hai fatto a doppiarmi in tre giorni mentre io a mettere a posto il sincro delle battute ci ho messo tre mesi?”.
Un altro?
“Murray Abraham. L’ho doppiato in Amadeus. E’ stato complicato, facevo Salieri da giovane e da vecchio adattando l’espressione vocale al tempo che passava. Mi ha scritto entusiasta dopo avermi sentito: sembravi me, lo stesso mio timbro, un’intonazione perfettamente aderente al personaggio. Il regista Milos Forman, che conosce bene l’italiano, ha fatto i complimenti a tutti i doppiatori del film: siete meglio dei miei attori, ha detto”.
Eppure resta l’eterna polemica sulla funzione del doppiatore.
“È vero. Il doppiaggio esiste solo in Italia, Francia e parzialmente in Spagna e Germania. Noi siamo i migliori eppure il nostro ruolo è stato a lungo denigrato da grandi registi che poi si sono ricreduti. Rondi, decano dei critici, affermava che il doppiatore stravolge il film e rende un pessimo servizio al cinema, nascondendo la voce originale dell’attore. Al contrario Fellini, Dino Risi e Rossellini ci hanno sempre sostenuti. Pasolini addirittura definiva i sottotitoli uno sfregio all’immagine”.
Ma in fondo chi è il doppiatore?
“Un traduttore, com’è per la letteratura davanti a uno scrittore straniero. Non tutti sono in grado di leggere Shakespeare, Omero o Cervantes nella lingua originaria. Se ci sa fare, il doppiatore offre un servizio indispensabile agli spettatori. Dev’essere un elastico: corre quando il personaggio corre, rallenta quando l’altro frena. Nella sala buia dove registriamo è facile emozionarsi doppiando un bravo attore, ma ci sono attori che così bravi non sono: noi spesso li miglioriamo”.
Addirittura?
“La voce di Oreste Lionello ha reso migliore Woody Allen sullo schermo”.
Lei come si giudica?
“Sono molto severo: poche volte mi piaccio. Soprattutto all’inizio ero un cane, poi sono diventato un mezzo cane. Ho dato la voce a Michel Piccoli e a Noiret un’unica volta perché non mi ritenevo adatto. Solo ora, dopo tanto tempo sulla breccia, mi ritengo sufficientemente portato per questo mestiere. Per fare doppiaggio bisogna essere attori completi: sapere di recitazione, dizione, psicologia”.

Un grande doppiatore è un grande attore?
“Non è detto. E non è detto l’inverso. Rina Morelli era straordinaria in entrambi i ruoli, Cervi è stato ottimo doppiatore ma di Lawrence Olivier. E pochi ricordano la bravura di Proietti in sala doppiaggio: è sua la voce di Stallone nel primo Rocky e di Dustin Hoffman in Lenny. In linea di massima chi viene dal teatro è avvantaggiato”.
L’attore migliore che ha doppiato?
“Tanti, sul serio. Ma se proprio devo sceglierne uno dico Harvey Keitel”.
E il peggiore?
“Martin Landau. Ho fatto la serie tv Spazio 1999 e l’ho trovato veramente scarso. Ma è stato eccezionale interpretando Bela Lugosi nel film Ed Wood, dove si è meritato l’Oscar”.
Lei è stato tanti personaggi ma per tutti resta la voce del vecchio Clint. Come lo spiega?
“Sto al gioco, anche se mi piace essere considerato eclettico. Mi diverte il tassista che rimane a bocca aperta quando dico dove deve portarmi. O l’attimo di incertezza che assale un interlocutore sconosciuto quando rispondo al telefono. Del resto l’ho doppiato in 27 film: un record. E a lui devo il mio capolavoro”.
Cioè?
“Eastwood non alza mai la voce nei film, neppure quando fa il poliziotto o l’eroe. E’ senza enfasi, quasi dimesso. Ha grandi pause. In più un’operazione alle corde vocali nel 2002 lo ha reso afono. Quando gira in diretta lo fa con una piastra microfonica nascosta sul diaframma, il direttore del suono americano gli alza il tono e lo allinea agli altri attori. Così quando nel 2009 lo doppiai in Gran Torino avevo un grosso problema da risolvere. Mi chiesero di renderlo privo di timbro, ci provai ma non si capiva nulla del sonoro. Ero in crisi. Allora inventai una voce raschiata che magicamente funzionò”.
Clint ne fu contento?
“Di più. Scrisse un telegramma alla Warner Bros. Il testo era: My sincerely compliments for the dubbing of Gran Torino, the best in Europe. Mister Kalèmera is remarkable, I want 10 blue ray for my american-italian friends. Voleva che figli e nipoti dei vari Tony Bennett, Dean Martin e Perry Como ascoltassero la versione italiana fatta da me, tanto gli era piaciuta”.
Una grande soddisfazione?
“Enorme. Dopo il film accadde una cosa buffa: sentimmo Eastwood in una intervista televisiva parlare con voce afona ma roca. Mia moglie è saltata sul divano: Michele, è incredibile, lui ti sta imitando, ha copiato la tua voce sgranata. Adesso fin quando vivrò, e fin quando vivrà lui, dovrò doppiarlo in questo modo”.
Clint ha compiuto 92 anni.
“Lo so. Ma lo conosco, non è uno che si ritira”.
Vi siete mai incontrati?
“C’è stata l’occasione al cinema Fiamma di Roma nel ’95, per la prima de I ponti di Madison County. Lui chiese di me: where is Kalèmera, my italian dubber?, dov’è il mio doppiatore italiano. Storpiava il mio cognome. Ma io non ero in sala perché la casa di produzione aveva fatto una scorrettezza”.
Non è stato l’unico sgarbo.
“I primi tempi per doppiare Clint prendevo due milioni di lire. Nell’85 chiesi un aumento di mezzo milione. Risposero che mi ero montato la testa e affidarono ad altri Gunny e i tre film successivi. Non ho voluto vederli. Mi sono rifatto con Gran Torino quando mi implorarono di tornare: pagarono 19mila euro”.
Ha guadagnato molto?
“Moltissimo fino a metà degli anni ’90. Poi ho rallentato, è un lavoro che ti divora”.
E’ pentito di essere una voce e non una presenza in teatro o al cinema?
“Quando vado a vedere uno spettacolo mi accorgo di invidiare gli interpreti. Mia moglie dice che mi agito in poltrona senza trovare pace. Sono stato molto amico di Giancarlo Giannini, ogni volta che ci incontravamo mi apostrofava: sei uno stronzo, eri un bravo attore, dovevi continuare a recitare. Forse il doppiaggio mi ha impigrito. Forse è andata bene lo stesso”.