Esplode la polemica sulla rete: Squid Game è troppo violenta, i bambini si picchiano tra di loro per imitarla. Mi chiedo come mai i bambini abbiano accesso a questa roba e perché non esistano più i genitori che educano i figli al bello e alla selezione, invece di accogliere tutta la porcheria a cui sono costantemente esposti, legittimandola con il concetto del “gusto personale”. Però c’è anche chi la difende, sostenendo che chi si focalizza sulla violenza è sostanzialmente di vedute ristrette e non ha capito il senso profondo. E allora me la guardo tutta, questa serie, per capire.
E niente: l’ennesimo prodotto commerciale in cui si fa finta di trovarci roba di denuncia o di sociale. Di sociale e di denuncia ci sono solo la condizione di partenza dei protagonisti e l’origine del gioco, ma certo non sono gli aspetti che vengono sviluppati in drammaturgia. No, la parte preponderante ce l’hanno gli elementi che vendono: la tensione (molto ben resa) e la violenza, non solo visiva ma concettuale; il fatto che sia eccessiva la rende quasi finta (ma anche no) e quindi divertente (chissà perché), ma nello stesso tempo normalizza il concetto.

Ma la gente non ha nessuna cognizione o percezione degli effetti dell’esposizione mediatica, altrimenti Maria De Filippi si sarebbe estinta dopo la prima edizione di qualunque obbrobrio abbia firmato e condotto e invece sono 30 anni che produce il mostruoso panorama inculturale dei nostri tempi.
Attenzione, la violenza è solo uno degli elementi criticabili, ma finora l’unico sottolineato, tanto da aver convinto tre scuole elementari di un distretto dello stato di New York a proibire costumi di Halloween ispirati alla serie, dopo che i bambini si sono divertiti a gonfiarsi di botte. Squid Game è una sceneggiata napoletana/telenovela brasiliana/soap-opera americana, tutto in un manga coreano, con i ditini che fanno il cuoricino.
È un coacervo di personaggi stereotipati (il buono, il cattivo, il cattivo che in realtà è buono, il buono che in realtà è cattivo), dialoghi scontati (perché quel genere di personaggi, scritto da chi non ha spessore intellettuale, finisce per dire sempre le stesse cose e sempre con gli stessi atteggiamenti), con domande altrettanto retoriche e risposte non date o lunghe pause e poche parole (tipico di quando non si ha nulla di serio da dire); poi abbiamo tonnellate di sentimentalismo retorico, un bel po’ di roba ridicola che non sta in piedi, tipo un poliziotto infiltratosi da solo in un ambiente totalmente sconosciuto e altamente psicopatico nel quale però si muove con una disinvoltura da supereroe e la cui utilità è zero ai fini della dinamica.

Se non per ottenere uno dei colpi di scena, ma importa poco, tanto questo genere di prodotto audiovisivo non lo segui per la storia, ma per la tensione e l’action. Il finale, con ancora un colpo di scena (caposaldo di ogni buon manuale “Come scrivere una sceneggiatura” – spesso unico ausilio dei moderni scrittori – ed elemento altamente abusato di questi tempi, sempre da chi non ha nulla da dire) e la parabola sulla fiducia nell’umanità, affrontata con la consueta banalità, come retorica vuole.
La violenza giustificata dal bisogno, che ti fa tifare per il buono quando uccide, perché in fondo ha ragione, ma anche quando alla fine non lo fa, vale tutto! Il senso privato di tutto, che giustifica tutto: sono disperato quindi uccido, la mia vita per la tua… io, io, io. Dei problemi della società coreana e delle sue dinamiche non c’è nulla, peccato; non c’è punto di vista, non c’è spessore, non c’è contenuto sviluppato, non c’è denuncia o meglio non c’è critica, perché non è lo scopo della serie; eppure c’è chi ce li trova lo stesso, incredibile!
C’è solo una cosa che funziona tantissimo oggi: fuffa, assolutamente ben vestita. La serie è ben girata, è buona l’idea, ha elementi estetici, ma si sviluppa come prodotto commerciale, non certo come opera artistica. Perché è nell’intelletto che si differenziano gli Autori dagli scrittori e i performer dagli Artisti.

La verità è che Hwang Dong-Hyuk non aveva nessuna intenzione di raccontare la disperazione, l’egoismo, l’iniquità, li ha usati come sfondo, come partenza, come pretesto per giustificare la violenza del gioco. Lui voleva intrattenere. E pare anche che abbia scopiazzato qua e là, sicuramente ha tratto ispirazione dalle tonnellate di manga che si è strafogato prima di scrivere.
Se il fenomeno ha spopolato perché la gente la considera una serie impegnata di denuncia sociale, è evidente che non è chiaro cosa sia la denuncia sociale. Non basta “cosa” scegliamo di raccontare; è importante il “come”. É qui la differenza tra sostanza e apparenza.
Beati voi, che trovate tutti questi capolavori nella sproporzionata valanga di offerta di Netflix e affini. A me pare evidente invece che l’esponenziale aumento di offerta abbia drammaticamente ridotto la qualità, perché il talento non lo si può produrre: è spontaneo ed è raro. Dopo La regina di scacchi mezzo mondo è corso a comprarsi gli scacchi! È tutto una questione di trend, mode, Instagram, prodotti, marketing. Non vedo nessuno mosso per i diritti umani che corre in piazza a ribellarsi, vedo famiglie che per Halloween si vestono da Squid Game perché “è fichissimo!”.
Mi sembra davvero presuntuoso pretendere che sia pure di alto contenuto. Altrimenti so’ bboni pure gli Harmony!