Prima del 1921 le arti erano sei: Architettura, Musica, Pittura, Scultura, Poesia e Danza. Finché il critico Ricciotto Canudo definì il Cinema la settima arte. Nel tempo la definizione si è ampliata, è stata inserita la letteratura come genere più ampio della sola poesia, si sono aggiunte la fotografia, il fumetto, addirittura il videogioco.
L’arte è un potente mezzo a due sensi: da una parte è figlia del proprio tempo, manifestazione e rappresentazione della società che l’accoglie; dall’altra però è anche madre, di idee nuove, di contrasto, di senso critico, di liberazione e di conseguenza di sviluppo, evoluzione e progresso. Non è un caso che spesso venga costretta ed impedita: quando si vuole limitare la comprensione, la consapevolezza e la crescita di solito la si censura. Ma non tutti i prodotti delle arti sono arte in sé. Non basta scrivere una storia, dipingere un quadro, girare un film, fare una piroetta o cantare una canzone per essere un artista. É un titolo che dovrebbe essere conquistato come riconoscimento dello spessore e del valore della propria creatività e che nessuno dovrebbe mai attribuirsi da solo.

Cosa succede quindi quando l’arte diventa espressione di un periodo storico culturalmente appiattito come quello che viviamo oggi, dove i reality, la rete e i social hanno favorito il riversamento di valanghe di offerte totalmente svincolate dall’analisi del loro valore o alle quali – ancor peggio – il valore viene attribuito solo su basi commerciali? Il comune, il banale, l’ordinario oggi diventano importanti e meritevoli di attenzione, l’esposizione di qualunque contenuto rende tutti noti allo stesso modo, sono i famosi 15 minuti di celebrità per chiunque di cui parlava Andy Warhol che però si ripetono all’infinito, con un danno enorme per la formazione del gusto personale e la costruzione del senso critico che, se non insegnato, difficilmente si genererà spontaneamente. In questi tempi di isolamento sociale dovuti al virus incombente ci siamo tutti riversati in modo bulimico sulla fruizione che già da tempo moltissime piattaforme offrono in termini di produzioni cinematografiche e seriali. Tonnellate di offerte che hanno sì ampliato la scelta, a totale discapito però del piano qualitativo. Ho visto dozzine di serie televisive che onestamente mi sembrano tutte uguali, sfornate secondo canoni prestabiliti e perfette da un punto di vista tecnico (ottima recitazione, fotografia, ambientazioni) ma appiattite dal punto di vista intellettuale. Poche sere fa su Netflix, mi sono imbattuta in una nuova serie TV: Ratched, creata da Ryan Murphy (American Horror Story’s) e liberamente ispirata all’omonimo personaggio dell’infermiera del romanzo di Ken Kesey Qualcuno Volò sul Nido del Cuculo del 1962. La serie, è ambientata negli anni ’40 e racconta i vent’anni precedenti a quelli raccontati nel romanzo e nell’adattamento cinematografico del 1975 di Milos Forman (ambientati entrambi nel 1963).

La serie ai miei occhi è apparsa come un banale concentrato di morbosità, di giustificazioni di comportamenti violenti più che di analisi dell’origine dei suddetti, un insieme di omicidi, estemporanei o meticolosamente pianificati, concepiti più per esibire la spettacolarizzazione della morte che per analizzarne la matrice; personaggi descritti superficialmente protagonisti di continue dinamiche, una dopo l’altra, per offrire un intrattenimento costante, i famosi colpi di scena di cui la storia è infarcita e che sono inseriti non tanto per dare evoluzione alla dinamica drammaturgica ma appunto per non “annoiare” il pubblico (d’altronde è stato acclamato che il linguaggio dei social, che ci ha abituato a scrollare i contenuti velocemente, impone ormai un tempo di attenzione di pochi secondi).

Così, subito dopo aver visto l’intera prima stagione (ne sono previste altre tre) sono corsa ai ripari di una grave pecca: non avevo mai visto il film e non ho letto il romanzo; ero curiosa di capire da dove tutto quello che avevo appena visto era originato e sapevo per certo che Forman, Nicholson, Fletcher, De Vito e tutti gli altri avrebbe in qualche modo appagato il senso di insoddisfazione che mi aveva lasciato la visione della serie. All’epoca il romanzo e, 13 anni dopo, il film rappresentarono un forte elemento di denuncia della società e del suo sistema di approccio verso il tema della malattia mentale nello specifico ma più ampiamente dell’isolamento di elementi considerati disturbanti e non conformi all’allora senso comune. Negli Stati Uniti il libro è stato censurato in continuazione, fino ancora al 2010, in numerose librerie scolastiche come contrario al senso della decenza; il film è inserito in quasi tutte le liste dei 100 film più importanti della cinematografia, con 5 Oscar alle categorie più importanti (miglior film, miglior regia, miglior attore, miglior attrice e miglior adattamento di sceneggiatura). Il linguaggio della letteratura e della cinematografia favorivano l’analisi, l’approfondimento, la critica della tematica trattata. Il libro, come il film, trattavano davvero il problema sociale con attenzione, cognizione e sensibilità. Sono dei veri e propri trattati che usano il linguaggio artistico per rendere quello più prettamente professionale fruibile da chi non ha confidenza con il piano medico e psicologico. E questo fa l’arte: con la sua complessità (perché serve spessore per poterla creare) rende semplici e fruibili a chiunque anche tematiche elaborate e complesse. Il film di Forman sviluppa i personaggi, si sofferma sulle dinamiche psicologiche, racconta le intime pieghe del problema, sottolinea la denuncia attraverso il protagonista McMurphy, rappresenta il conformismo dell’autorità con il personaggio dell’infermiera Mildred Ratched, tracciata con pochi tratti essenziali e minimalisti ma del tutto efficaci per esprimere il concetto. Non racconta solo una storia: la spiega.

Nulla di tutto questo ho trovato nella serie, che mi sembra rappresentare solo la parte morbosa della tematica come elemento narrativo di successo in questi tempi. Non è un caso che la maggior parte delle serie degli ultimi anni abbiano per protagonisti, quasi simpatici e con i quali si empatizza, criminali e psicopatici quasi giustificati più che analizzati: Breaking Bad, Dexter; Narcos, I Soprano e potrei andare avanti all’infinito, dove i peggiori comportamenti perdono il loro ruolo antagonista e diventano protagonisti senza però una reale denuncia o elaborazione ma quasi elevati a comportamenti giustificati da ambizione personale o evoluzione di violenze subite, con un’analisi superficiale che lascia il primo piano alla spettacolarizzazione di quegli elementi che più facilmente vendono un prodotto visivo: sesso, violenza, azione, scandali, complotti, libertà senza limiti, colpi di scena, il tutto spesso intriso di luoghi comuni e moralismo.
Le storie non sono più analisi di contesto, ma diventano pretesto per esibire le dinamiche che attirano di più.
Onestamente, a confrontare la serie con il film (anche tenendo conto del diverso periodo storico e del diverso linguaggio che caratterizza i due tipi di prodotto) non esiste paragone in termini di peso intellettuale, spessore analitico e livello di scrittura. E qui torniamo all’analisi del contesto sociale che dovrebbe favorire la produzione di arte non solo come forma di espressione ma di analisi del proprio tempo: in un momento storico dominato dalla rete che dà a chiunque, meritevole o meno, spazio per “esprimersi” si sta perdendo il senso analitico e critico che è quello che forgia il gusto personale. Basta che qualcosa piaccia a qualcuno per assurgerlo a prodotto valido. Ma se non si insegna a riconoscere e interpretare il valore delle cose il gusto personale, assolutamente legittimo, resterà basico e tendenzialmente povero: se non si insegna a decifrare la letteratura di qualità si farà fatica a leggere Proust o Tolstoy o Miller e si preferiranno i best seller; il teatro di Edward Albee sarà incomprensibile e si preferiranno lavori più accessibili perché semplici nella struttura e nel linguaggio.

Chissà cosa pensa della serie un trentenne medio con poca conoscenza della cinematografia di rilievo e cosa penserebbe del film? La considerazione che più frequentemente sento fare dal cosiddetto pubblico mainstream è “vado a teatro o a cinema per distrarmi; per ridere; per non pensare ai problemi di tutti i giorni; per un po’ di avventura!”… e da quando l’arte serve a non pensare, a distrarsi, a non impegnare il senso critico? Oppure bisogna tutti convenire che in quel caso non si sta usufruendo di arte ma di semplice intrattenimento, che obiettivamente sta monopolizzando tutti i canali. Allora bisognerebbe che la critica cominciasse a discernere tra i due aspetti e smettesse di osannare prodotti culturalmente vuoti che hanno il solo scopo di vendere suggestioni invece che diffondere spessore e valore (cosa che è fortunatamente avvenuta con Ratched, abbastanza stroncato dalla critica che gli ha imputato una certa superficialità, soprattutto rispetto al capolavoro a cui si ispira). Un tempo l’artista, dotato di talento, aveva l’urgenza di creare di solito dettata da un senso di analisi e ribellione, di ispirazione e critica, dalla necessità di scardinare, condannare e deviare verso ideali di giustizia. É per questo che i più grandi capolavori letterari, cinematografici, musicali, pittorici, hanno tutti stretta correlazione con elevati temi sociali ed etici. L’autorato di oggi invece è appiattito su meccanismi di vendita che dettano un contenuto imposto per necessità e soprattutto ha perso in partenza lo spessore intellettuale che rende un scrittore un autore. Si sta perdendo il senso intrinseco dell’arte, matrice di cultura, il senso critico, alla base della formazione del gusto personale, e il senso artistico, assegnato a qualunque cosa incontri un minimo di favore.
Si ripete in continuazione quanto sia importante la cultura per rendere l’uomo consapevole e libero, ma a furia di ripeterlo il concetto ha perso significato e in realtà non si fa nulla di concreto per rinforzarlo e realizzarlo. Invece di implementare l’analisi critica e limitare la definizione di arte a ciò che davvero la merita si sta ampliando all’infinito il suo contenuto, facendo perdere del tutto l’individuazione dei suoi confini.
Così basta scrivere secondo manuale una storia piena di luoghi comuni e colpi di scena e realizzarla in modo tecnicamente perfetta per avere un’approvazione entusiasta, distratta dalla bravura degli attori o dall’eleganza delle scene o dall’atmosfera della fotografia e che di solito si conclude con l’invito alla visione.
Senza offesa per Mr Murphy… ma preferisco guardare Qualcuno Volò sul Nido del Cuculo 52 volte piuttosto che le prossime tre stagioni di Ratched, perché preferirò sempre la qualità dei contenuti alla quantità dell’offerta.