Se ne va la prima settimana della 76a “Mostra del cinema di Venezia”, lasciandoci la sensazione che il meglio sia già passato. Speriamo che non sia così, di certo i primi giorni del concorso principale sono stati decisamente densi e importanti.
Sono tre, in particolare, i film che, per motivi diversi, hanno convinto più degli altri.
Partiamo dal primo, quel “J’accuse” di Roman Polanski ampiamente anticipato da polemiche inevitabili e prevedibili, tanto prevedibili da insinuare il sospetto che siano state un po’ cercate da chi ha allestito il concorso. Per chi si fosse peso le puntate precedenti: Polanski è stato condannato per aver fatto sesso, nel 1977, nella casa di Jack Nicholson, con una ragazzina di 13 anni, Samantha Geiger. Il regista ha ammesso le sue responsabilità, ma il giorno prima che venisse emessa la sentenza, a inizio ’78, è scappato in Europa e non ha fatto più ritorno negli Stati Uniti. Cittadino francese, non può uscire dal paese transalpino perché sulla sua testa pesa un mandato di cattura internazionale dell’Interpol e sarebbe immediatamente arrestato ed estradato.
Fatte queste premesse, lontane nel tempo e da tempo note, veniamo all’altro ieri: i selezionatori di Venezia 76 decidono, legittimamente, di accogliere il suo ultimo film in concorso. Però decidono – e qui nasce il problema – di metterlo in gara proprio nell’anno in cui, a presiedere la giuria, viene scelta la bravissima regista argentina Lucrecia Martel, che non è solo un’artista raffinata e originale, ma è anche una cineasta da sempre schierata in prima linea nella battaglia per i diritti delle donne, in America Latina e in tutto il mondo, e contro il maschilismo imperante nell’industria cinematografica. La bomba è innescata, bisogna solo attendere.

Così, ecco che nella conferenza stampa d’apertura Lucrecia Martel esprime il suo disagio, annuncia che vedrà il film di Polanski in una proiezione minore e non a quella di gala perché altrimenti sarebbe costretta ad alzarsi ed applaudire, ma precisa immediatamente che giudicherà il film con lo sguardo obiettivo che deve avere una presidente di giuria. Ovviamente seguono minacce di ritiro del film da parte di Luca Barbareschi, che il film l’ha coprodotto, invettive contro la regista argentina o contro i selezionatori, polemiche a non finire e varie uscite inopportune. A placare la tempesta ci pensa il film, che è – come noto – una ripresa, a oltre un secolo di distanza dai fatti, dell’affaire Dreyfus, il più imbarazzante scandalo antisemita in cui sia incappata la Francia nella sua storia, mediato però dal romanzo “An Officer and a Spy” di Robert Harris, già autore del testo alla base di un altro film di Polanski, “The Ghostwriter”. L’affaire Dreyfus è il calvario di un uomo perseguitato dal sistema, quindi bisogna essere molto rigorosi per non cadere nell’errore che hanno fatto in molti, spinti da un’inaccettabile dichiarazione dello stesso Polanski nel press kit, che invita a creare un parallelismo tra l’ufficiale francese e se stesso. Polanski, però, si dimentica di una sostanziale differenza, cioè che, a differenza di Dreyfus, che era totalmente estraneo ai fatti, fugge da una colpevolezza accertata e che egli stesso ha ammesso.
Togliamoci subito, quindi, le lenti autobiografiche e cerchiamo altrove l’attualità di quest’opera di livello altissimo, cioè nella presenza, allora come oggi, di un sistema socio-politico autoritario, che ha bisogno di alimentare fobie razziali per gettare capri espiatori in pasto alle folle e distrarle dai veri problemi che le affliggono. Polanski relega in secondo piano Dreyfus (Louis Garrel) e si concentra su Picquard, un militare appena promosso a capo dei servizi segreti, che pur non provando simpatia per gli ebrei, quando scopre che le prove a carico di Dreyfus sono nel migliore dei casi inconsistenti e che il traditore sarebbe un altro, un certo Esterhazy, segue in modo quasi ossessivo il proprio senso morale, scontrandosi però con un meccanismo omertoso e bugiardo. Polanski costruisce il film come un legal thriller classico, elegante, impeccabile, formalmente eccelso, che, al netto di polemiche e casi a orologeria, sarebbe naturale considerare tra i favoriti per il successo finale.
Tra gli aspetti che maggiormente saltano agli occhi della selezione veneziana, già dal momento dell’annuncio, c’è sicuramente anche la presenza in concorso di un cinecomics, cioè “Joker”, diretto da Todd Phillips e concepito come una scossa violenta all’asfittico universo DC, grazie a un approccio iperrealistico totalmente nuovo per il genere.
Il film è divertente, scritto e girato bene e interpretato alla grande dal solito, eccessivo Joaquin Phoenix, anche se certamente non innovativo nella rappresentazione del male che nasce dall’emarginazione e dalla rabbia. Due aspetti lo rendono particolarmente interessante: Gotham City, dipinta come una metropoli decadente in un futuro distopico, viene collocata spazio-temporalmente nello scenario infernale della New York anni ‘70, quella brutale e malata del sindaco Abraham Beame, del figlio di Sam e di “Taxi Driver”. In secondo luogo, è molto interessante il rovesciamento di alcuni aspetti fino ad oggi scontati della mitologia di Batman, come la figura di Thomas Wayne, il filantropo magnate padre di Bruce che qui è tutt’altro che uno stinco di santo, anche lui corroso dall’aria malefica e irrespirabile di Gotham.
Altro film attesissimo era “Ema”, di Pablo Larrain, regista cileno di grande talento che con “Neruda” e “Jackie”, entrambi del 2016, aveva incontrato importanti riscontri di critica. Il titolo è il nome del personaggio principale – interpretato dall’esordiente e sbalorditiva Mariana Di Girolamo – una danzatrice che vive con il suo coreografo Gastòn, interpretato da Gael Garcia Bernal, e con il quale ha prima adottato e poi “restituito” in orfanotrofio il piccolo Polo, un fallimento che ha lasciato segni indelebili nel bambino e nella coppia. Questa brevissima e inadeguata sinossi potrebbe trarre in inganno: siamo ben lontani dai toni del dramma familiare, perché “Ema” è un film infuocato e straripante, che si muove in modo libero e frenetico, scandito dal raggaeton che lo accompagna e che fa ballare i suoi protagonisti. La vita disordinata di questa fanciulla vitale e inquietante è attraversata da desideri intensissimi e folgoranti, che emergono mentre balla per le strade o si staglia sui tramonti di Valparaiso con un lanciafiamme in mano, e Larraìn, cineasta tra i più rigorosi e sorvegliati in circolazione, la racconta con una forma libera, incatalogabile, sublimemente assemblata dal montatore Sebastian Sepulveda, autore di un lavoro davvero incredibile. Mi sbilancio: a oggi, il mio favorito per il Leone.