Che sarebbe stata un’edizione di Cannes travagliata lo si era intuito già al momento dell’annuncio della line-up, nella quale, molto più dei presenti, spiccavano le assenze dei pesi massimi pronosticati alla vigilia, diretti con ogni probabilità verso i festival estivi meglio posizionati per gli Oscar e meno pasticcioni nel gestire i rapporti con Netflix e simili. Poi, pronti via, e l’esordio di questa 71ma edizione del festival più glamour del pianeta – il peggior film della carriera Asgar Fahradi – ha confermato le perplessità, come abbiamo avuto modo di scrivere nei giorni scorsi.
Ora, però, al quarto giorno di festival, dobbiamo parzialmente ricrederci e constatare come i canti funebri fossero decisamente prematuri: dopo l’incipit decisamente sottotono, sono arrivate, una dopo l’altra, tre piccole perle che hanno fatto impennare la qualità della rassegna. Tre storie d’amore problematiche e tormentate, tristi e intense, tutte in concorso: “Leto” (“Summer”) di Kiril Serebrennikov, “Zimna Wojna” (“Cold War”) di Pawel Pawlikowski e “Jiang Hu Er Nv” (“Ash is Pure White”) di Jia Zhang-Ke.
Il primo dei tre è firmato da un giovane regista russo – Serebrennikov, direttore del teatro Gogol – che si trova in questo momento agli arresti domiciliari con l’accusa di frode fiscale, motivazione da molti ritenuta pretestuosa a copertura della vera “colpa”, che sarebbe quella di rappreseentare una voce troppo esplicitamente e apertamente contraria al regime di Putin. Con “Leto”, Serebrennikov ripercorre l’inizio della carriera di Viktor Tsoï, futuro leader dei Kino, una delle rock band più importanti della scena sovietica, e mostra il fermento musicale, intellettuale e culturale dei giovani di Leningrado nell’ultimo decennio del comunismo. La storia d’amore attorno a cui ruota questo biopicè il menage a troistra Victor (Interpretato da Teo Yoo), il suo mentore e amico Mike (Roman Bilyk) e la bella moglie di quest’ultimo, Natasha (Irina Starshenbaum); scandito dai pezzi originali dei futuri Kino e da brani iconici del rock anni ’70 – da David Bowie ai Velvet Underground, dai T-Rex ai Led Zeppelin, accompagnati da brillanti soluzioni grafiche e da musical – il film sembra suggerire, nemmeno troppo velatamente, il confronto tra il fermento intellettuale della cultura underground, musicale e letteraria, della Leningrado dei primi anni ’80, e l’odierna Russa capitalistica di Putin, che lavora nel profondo per spegnere il bisogno di libertà. Fotografato in un brillante bianco e nero e accompagnato da una seducente mobilità di camera, “Leto” è una storia di musica e d’amore, ma anche grande film politico sul rapporto tra società e desiderio.
Stesso tema del secondo film in bianco e nero della rassegna, il bellissimo “Cold War” del premio Oscar Pawlikowski, che racconta l’amore tormentato tra Wiktor, pianista e direttore d’orchestra, e Zila, cantante e ballerina, calandolo nel contesto della Polonia della Cortina di ferro. I due si conoscono nel 1949, all’Accademia di cultura popolare e – tra rotture, ritorni di fiamma, tradimenti e separazioni – si ameranno per tutta la vita. Pawlikowski sottolinea come il desiderio venga alimentato dall’esperienza del limite; lo sfondo perfetto per un amour fou che sembra quasi una corsa a ostacoli, quindi, non può che essere la Guerra Fredda, che dell’esperienza del limite è l’archetipo storico. Struggente e intenso, incastrato in un 4:3 che stringendo le figure sembra amplificarne le emozioni, il film di Pawlikowski si candida da subito a un posto nel palmares finale.

Jia Zhang-ke ha già un premio importante di Cannes nella sua bacheca, quello per la miglior sceneggiatura a “Touch of Evil” nel 2013; il suo nuovo film, “Ash is Purest White”, è la storia d’amore tra un piccolo boss mafioso di provincia e la sua fidanzata, prima separati dal carcere – lei sconta cinque anni di prigione al posto suo per detenzione illecita d’arma da fuoco – e poi riavvicinati dal destino. Come in “Mountains May Depart”, presentato in concorso sempre qui a Cannes nel 2015, anche quest’ultima prova del regista cinese è divisa in più capitoli ambientati in momenti differenti della recente storia cinese. Il film inizia nel 2001 e si conclude ai giorni nostri e nel descrivere la progressiva perdita di certezze e di identità dei personaggi mostra anche lo sgretolamento progressivo delle coordinate morali e sociali di un’intera nazione.

Anche “Plaire, aimer et courir vite” di Christophe Honoré racconta una storia d’amore, sebbene complessivamente il film risulti meno riuscito dei tre citati in precedenza. L’amore è quello tra Jacques, scrittore sieropositivo, e Arthur, un giovane studente bretone: si conoscono negli anni ’90, in un cinema in cui viene proiettato “Lezioni di piano” di Jane Campion, e si amano, soprattutto a distanza, perché Jacques è sfuggente, scostante, essendo il suo orizzonte limitato dalla malattia. Ci sono momenti straordinari, quelli più “di pancia”, come l’incontro tra i due protagonisti o le sequenze che raccontano il rapporto tra Jacques e il suo ex amante, che l’AIDS sta uccidendo, o con il figlio Louis, avuto da una precedente relazione eterosessuale. Quello che nuoce al film è indubbiamente il coté letterario, sottolineato talvolta in modo forzato con pesantissimi riferimenti e citazioni che sembrano incastrati a forza e sgonfiano la forza emotiva del film.

Oggi è il giorno di Godard, della lezione di cinema di Christopher Nolan e dell’atteso film di un altro regista vittima di un regime, Jafar Panahi, che non sfilerà sul tappeto rosso in quanto l’Iran lo considera un soggetto pericoloso che non può abbandonare il paese. Il suo film, per fortuna, giunto fino qui, arriverà in concorso tra poche ore rafforzare l’impronta molto “politica” di questa 71ma edizione del festival di Cannes.