“Ho scelto la Sardegna come ambientazione di Figlia mia perchè è un’isola dalla bellezza commovente, profonda e solida, ma piena di sfaccettature. Una terra che con il suo paesaggio di una forza disarmante ed estrema ricorda la forza delle madri”. A parlare è Laura Bispuri, l’unica regista italiana in concorso alla Berlinale 2018 e a questo punto sospettiamo anche in odore di premio.
Vittoria, interpetata da Sara Casu, una bambina di 10 anni dai capelli rossi scopre di avere due madri: Tina, interpetata da Valeria Golino che vive in simbiosi con la figlia, e Angelica, Alba Rohrwacher, una donna fragile e istintiva. Quando Angelica, la madre biologica cerca il sostegno di Tina perchè ha bisogno di 28.000 euro per non perdere la casa, tra le due donne si scatena una disputa per contendersi l’amore della piccola.

A tre anni di distanza da “Vergine Giurata”, la Bispuri ritorna alla Berlinale con un film sulla maternità . “Mi sono chiesta cosa voglia dire essere madre oggi; se è possibile crescere con più figure materne di riferimento, se sia più importante il legame fisico con chi ti mette al mondo o con chi ti cresce”.
Al di là di alcune pecche di sceneggiatura, il film ci dice chiaramente che non c’è niente di immutabile o di universale nel modo di essere madre. “Il sistema genitoriale classico è un tema tra i più importanti della nostra epoca – spiega la Bispuri. “Per anni, secoli la donna è stata incastrata dentro la figura di madre perfetta, raffigurata come la regina del focolaio domestico.
La tecnica di ripresa del piano sequenza funge da percorso per avvicinarci ai personaggi. Ad una madre incapace di esserlo e totalmente irresponsabile, la regista affianca una donna dotata di un innato senso materno che vive in simbiosi con la figlia. Tra questi due modelli materni tra loro contadditori emerge la figura di Vittoria che diventa “la madre di quelle due creature”, precisa la stessa Bispuri. A voler dire che la solidarietà tra donne di generazioni e condizioni sociali differenti è la loro risorsa principale per superare gli ostacoli.

È interessante osservare che nel film della Bispuri gli uomini restano per lo più personaggi marginali ed indecifrabili. Una precisa scelta di regia che vuole porsi in netta contrapposizione con una tendenza del cinema italiano che relega le donne a figure di supporto dei personaggi maschili. “Non vorrei strumentalizzare troppo, ma il mio percorso al femminile è un piccolo atto politico. Sono stanca di vedere film in cui le donne aspettano a casa il ritorno dei figli e del marito, vedere il mondo femminile così banalizzato”, ha sentenziato la regista in conferenza stampa.
Se un tempo la maternità era da considerarsi un destino e non una scelta, oggi le donne hanno la possibilità di rivendicare la propria soggettività e scegliere il modo con cui stare al mondo. Il film della Bispuri ha il grande pregio di suggerire un nuovo paradigma in cui la maternità diventa fonte di valori positivi in grado di orientare la società verso un modello che non poggia sul predominio di un genere sull’altro, quanto piuttosto sul rispetto delle reciproche e individuali diversità. Una condizione necessaria per il superamento dell’immaginario femminile forgiato dal desiderio maschile.