L’8 agosto di trent’anni fa, un enfisema polmonare si portava via un’attrice dimenticata dai più eppure grandissima, per talune interpretazioni di eccellenza e per la speciale rappresentazione della femminilità offerta anche fuori dallo schermo. Fu di una bellezza avviluppante, perché impastata di pensiero: nella testolina graziosa di flapper funzionava un cervello di prim’ordine, sensibile ai problemi della gente e in grado di tenere a distanza la frivolezza dell’ambiente nel quale operava. Definì la perfetta ma costruita Marlene Dietrich, alla quale aveva soffiato la parte di Lulù in Die Büchse der Pandora, di Pabst, “mucca caracollante“. E dell’algida Greta Garbo ebbe a dire: "Proust ha fatto una brillante osservazione: ‘E' incredibile il livello a cui può giungere la mediocrità a contatto con il mistero’. Non è una frase bellissima per la Garbo?".
Già avanti negli anni, apparve in Looking for Lulu, la biografia artistica con Shirley Mc Laine voce narrante uscita nel 1998: nelle interviste si mostrava spudoratamente disinteressata alla bellezza sfiorita, i capelli lunghissimi che niente avevano a che spartire con il magico caschetto dei vent’anni. Era una perfetta americana d’età, volitiva, totalmente staccata dal suo mito, i ricordi ben presenti. Malata terminale avrebbe rifiutato gli antidolorifici per essere cosciente sino all’ultimo.
Nel coccodrillo firmato, trent’anni fa, da Gian Piero Brunetta, Lotte Eisner la definì “una splendida creatura la cui bellezza spinge lo spettatore a collegarla con delle complessità e profondità di senso di cui lei stessa era inconsapevole”, per poi correggersi e rincarare la dose: “un'attrice notevole, dotata di un'intelligenza fuori del comune, e non solo una splendida creatura”. Brunetta spiegava che quell’insieme di qualità aveva generato la “luccicanza” emanata dall’artista, “l'energia magnetica capace di trasmettersi e durare nello spazio e nel tempo”, ancora oggi oggetto di culto da parte di adepti, felicemente prigionieri del mito di bellezza libera e intelligente, magnificato nell’inarrivabile interpretazione di Lulù ma non solo.
Uno dei più significativi frequentatori del mito di Louise/Lulu, fu Guido Crepax che su di lei calò l’altro suo mito Valentina, come riconobbe nella corrispondenza poi stretta con Louise negli anni ’70 quando l’americana si era consegnata allo stato di “donna comune”, nemica, corrisposta, dell’hollywoodismo. Lui le scriveva, firmandosi Guido: “Ho disegnato i miei fumetti per undici anni e posso dire che in questo periodo ho disegnato diecimila volte l’immagine di una donna per la quale tu sei stata l’ispirazione”. E lei, citando il mago di Oz: “Mi sono sempre rammaricata di avere poco cervello … allora il mago di Crepax potrebbe dare un diploma a Louise … quando un libro mi rende perplessa io posso guardare il tuo disegno e capire ogni cosa”. E aggiungeva, citando il “Siamo tutti perduti” di Ortega y Gasset, che “soltanto quando lo confessiamo, troviamo noi stessi e viviamo davvero”.
Voleva, con quella frase, spiegare perché avesse rinnegato lo star system, che odiava come “terribile posto distruttivo che a tutti gli altri sembra un paradiso meraviglioso”. Anticipava al “suo” Guido al quale mandava un americanissimo “Love” in fondo alla lettera, un decennio prima della scomparsa, la confessione amara e definitiva: “A 69 anni, ho messo da parte la speranza di trovare me stessa. La mia vita è stata niente”. Non c’era più spazio per l’ironia che aveva condito la vita artistica e privata di Louise, e per la curiosità, che l’aveva nutrita come un cibo vitale.