La sera del 9 ottobre 1963, nella catena dolomitica tra Belluno e Pordenone, duecentosessanta milioni di metri cubi di roccia si staccano dal monte Toc precipitando nella diga del torrente Vajont, da poco in funzione. L’invaso artificiale, all’epoca il più alto al mondo, concepito per regolare e potenziare il sistema idroelettrico della zona, da qualche anno incombe sulle popolazioni valligiane, nonostante queste, negli anni della costruzione, abbiano espresso il timore che il diaframma che si frappone tra la massa liquida e la valle possa per qualche ragione restare danneggiato e aprirsi.
Non sarà quella paura a trovare realizzazione, cinquant’anni fa, perché la diga resiste benissimo alla sollecitazione della pietra che si abbatte nell’invaso. Però l’acqua, percossa dall’immensa frana di massi e roccia, fuoriesce generando un’ondata di cinquanta milioni di metri cubi che si abbatte sui comuni di Castellavazzo, Erto e Casso, Longarone e Vajont. Paga il conto più alto in vite umane Longarone, intorno alle 1500, sul totale stimato di più di 2000 morti.
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Per il numero di bambini e ragazzi sotto i 15 anni che vi perirono, più di 500, Vajont diventa un nome di morte e desolazione per chi era adolescente all’inizio dei sessanta. Su quel ricordo, ho viaggiato, negli anni novanta attraverso la zona. La strada era ancora massacrata dal danno, la diga, enorme ferita nelle rughe del Toc, sostanzialmente integra salvo una piccola crepa centrale. I paesi distrutti apparivano riportati alla vita, impegnati a costruire intorno al ricordo itinerari di consapevolezza per visitatori e turisti. A guardarlo, quell’orribile Toc che aveva dato la morte a tanta gente innocente, sembrava un dio pagano giustiziere, un po’ come la Trinità minacciosa dell’”Hanging Rock” nel film omonimo di Peter Weir. In realtà la responsabilità del disastro fu tutta umana: le inchieste resero evidente che non erano mancati allarmi sui movimenti anomali delle rocce. Non si seppe intervenire a tempo, come spesso nelle storie italiane dei disastri cosiddetti “naturali”.
Per il Vajont almeno abbiamo avuto condanne definitive in sede penale per la prevedibilità di inondazione e frana, oltre che per gli omicidi colposi plurimi. In tanti altri casi, è mancata persino l’individuazione dei responsabili da parte dello stato. C’è tutto il peggio del nostro paese in queste vicende: fatalismo mediterraneo, noncuranza del danno che può essere procurato, sottovalutazione delle proprie responsabilità civili e penali, burocrazia e procedure che rendono impossibili interventi risolutivi di prevenzione, assenza di deterrenza. A Longarone quella diga, progettata già in piena seconda guerra mondiale, non doveva essere costruita per l’evidente rischio geologico della vallata e della muraglia dolomitica. Per giunta il lago artificiale fu elevato oltre ogni prudenza, né si previdero efficaci meccanismi di allarme ed evacuazione in caso di rischio. Il risultato fu che quella sera di cinquant’anni fa, morte e distruzione la fecero da padroni.
I comuni colpiti celebrano il cinquantenario con manifestazioni e concerti, nella scia di quanto negli scorsi mesi è stato realizzato per ricordare gli scomparsi. Oggi, a Longarone, viene eseguito il Requiem di Verdi. Domani, al Parlamento Europeo di Bruxelles si conclude la quattro giorni di commemorazione. Preso nei suoi problemi istituzionali, lo stato italiano risulta praticamente assente, incapace di rinnovare la richiesta di perdono alle famiglie degli uccisi.
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