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December 9, 2012
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December 9, 2012
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MAFIA&POLITICA/ Morire per la giustizia

Marcello SaijabyMarcello Saija
Time: 8 mins read

Per gentile concessione dell’Autore, Marcello Saija

(Università di Palermo), pubblichiamo l’intervento

presentato al recente simposio “To Die for Justice:

Giovanni Falcone, Italian Hero”,

organizzato dalla SUNY @ Stony Brook

 

Gli anni '70 del '900 registrano la cesura più significativa nella storia della mafia. Nei decenni precedenti, malgrado le inevitabili trasformazioni, il potere mafioso era stato sempre subordinato prima alle èlite economiche dell’isola e poi alle èlite politiche.  Da queste ultime, in particolare, dopo l’impoverimento dell’agricoltura siciliana, i mafiosi avevano cominciato a dipendere per ottenere o controllare i flussi economici degli appalti e delle pubbliche commesse. La mafia forniva consenso elettorale ed otteneva favori, ma restava sempre in posizione subordinata alla politica.

 

Negli anni ’70, invece, questo modello di dipendenza si ribalta. Il principale introito della mafia diventa il narcotraffico e, grazie a questo, le cosche si procurano introiti ben più ampi di quanto non ne potessero ricavare dalle pubbliche commesse. Naturalmente, ciò non vuol dire che la mafia si disinteressa agli appalti. Cambia, però, il suo ruolo politico. Grazie alla droga, la mafia ha tanti soldi da potersi permettere di eleggere in proprio i quadri politici e di occupare in prima persona i posti di responsabilità pubblica. Spesso, gli appalti se li procura con i suoi stessi uomini, ed è in grado di ricattare lo Stato e le componenti politiche non ancora occupate dalla mafia. Questo processo si sviluppa rapidamente negli anni '80 e genera in Sicilia una corrente politica capace di orientare le scelte dei maggiori partiti di governo: gli andreottiani. Il capo indiscusso è l'on. Salvo Lima, uomo organico della mafia, e supremo garante in Sicilia della linea politica nazionale dettata dall’alleanza tra Craxi Andreotti e Forlani che al declinante compromesso storico, oppongono una linea di sbarramento al coinvolgimento dei comunisti al governo. E' in questa stagione che si trova ad operare il giudice Giovanni Falcone, ma, per comprendere bene la sua vicenda e soprattutto come si intreccia quel peculiarissimo rapporto tra mafia politica che lo ucciderà, bisogna tener conto del fatto che, dopo l’omicidio Moro, Andreotti e Forlani conquistano la DC grazie all’apporto della fortissima corrente andreottiana che dalla Sicilia, grazie alla mafia, porta al congresso nazionale il 26,5% dei delegati. Questo risultato gli andreottiani lo ottengono dopo l’omicidio del moroteo e leader della sinistra democristiana, Pier Santi Mattarella (6 gennaio 1980), al tempo presidente della Regione.

 

Secondo il pentito Marino Mannoia anche Mattarella aveva un rapporto con la mafia e segnatamente con il clan Bontade. Ed è probabilmente per questa ragione, oltre che per un inevitabile conflitto d’interesse nella gestione del narcotraffico che si innesca quella guerra tra le cosche che con l’omicidio del quarantenne Stefano Bontade (23 aprile 1981), porterà, in breve, il clan dei corleonesi di Totò Reina a diventare dominante. Ecco, Falcone arriva all’Ufficio istruzione della Procura di Palermo proprio quando i corleonesi di Totò Reina conquistano l’egemonia. Anello di congiunzione tra i vertici politici dello Stato e la mafia vincente è naturalmente l’on Salvo Lima, andreottiano di ferro e uomo vicino a Riina e agli esattori Salvo. Con questo nuovo equilibrio tra mafia e politica, i corleonesi, amici del CAF e ormai forti di protezione fino agli alti vertici dello Stato, prosperano con un ventaglio d’affari che va dal controllo del narcotraffico ai succulenti appalti pubblici, garantiti loro dal nuovo sistema politico siciliano. 

 

Questo è il mostro che si trova davanti Giovanni Falcone quando, dopo gli omicidi di Dalla Chiesa, Mattarella eBontade, apre la sua personale battaglia contro la mafia. Comprende subito che la mafia è parte dello Stato o che comunque ha forti poteri di condizionamento sulle istituzioni. Ne ha la riprova quando il procuratore della Repubblica di Palermo Pezzillo convoca Rocco Chinnici, capo dell’ufficio istruzione da cui lui dipende, e senza mezzi termini gli dice che questa mania di Falcone di volere frugare nei conti bancari di notabili ed imprese rovina l’economia palermitana. Non sono, però, soltanto le difficoltà d’ambiente ad intralciare l’azione del pool antimafia. Cosa Nostra reagisce con violenza e, il 29 luglio 1983, uccide Rocco Chinnici. Ventiquatto mesi dopo, a breve distanza uno dall’altro, uccide i commissari Montana e Cassarà, principali collaboratori di polizia giudiziaria del pool. Falcone e Borsellino vengono trasferiti sulla sperduta isola dell’Asinara, per permettere loro di continuare al sicuro il lavoro investigativo. Adesso è il valoroso magistrato Antonino Caponnetto a guidare il pool verso l’istruttoria che permette finalmente di imbastire il maxiprocesso.

 

Falcone, utilizzando al meglio le testimonianze della mafia perdente e di Buscetta in particolare costruisce il suo teorema accusatorio su dati incontrovertibili e, per la prima volta nella storia della mafia, nel novembre 1987, ottiene la condanna della cupola.  Viene finalmente sfatata la leggenda dell'intangibilità e della impunità. Il mondo legge chiaramente per la prima volta quali sono i capi ed i meccanismi del grande crimine organizzato in Sicilia e la condanna dà coraggio a molti. E' la sua più grande vittoria, ma è anche la sua condanna a morte. La mafia è una belva gravemente ferita ma non uccisa. Reagisce con le armi che ha dentro lo Stato. La vita per Falcone diventa un inferno. Il nuovo procuratore della Repubblica Giammanco gli è ostile e tenta di mettergli il bastone tra le ruote. Lui, però, non vuole disperdere il risultato ottenuto al maxiprocesso. Sa bene che l’unica speranza di salvezza è quella di poter colpire al più presto il terzo livello cioè quella parte dello Stato che è diventata mafia grazie al fortissimo potere di corruzione di Cosa Nostra. Connivenze e complicità sono, però, ovunque e condizionano anche i massimi organi del sistema giudiziario. Nel gennaio 1988, ad appena un mese dalla sua vittoria al maxiprocesso, quando Caponnetto lascia la direzione del pool e il CSM deve scegliere il successore, nonostante lo stesso Caponnetto avesse consigliato di scegliere Falcone, ricco, ormai, di una straordinaria esperienza specifica, il massimo organo di governo della magistratura, con la banale ragione della maggiore anzianità, nomina il pavido e sbiadito giudice Giovanni Mele. Nella migliore delle ipotesi è il risultato dell’invidia d’ambiente, ma è difficile sottrarsi a ben più gravi suggestioni. Falcone, però, non si arrende. Continua a svolgere il suo lavoro all’ufficio istruzione. Il clima peggiora rapidamente. Il Palazzo di giustizia, pieno di veleni, diventa il regno del Corvo, un anonimo che tenta in tutti i nodi di delegittimarlo, diffamandolo. Ma c’è di più. La mafia non rinuncia al progetto di eliminarlo fisicamente. Il 20 giugno del 1989 scampa ad un attentato nella sua villa al mare dell’Addaura, e ciò che avviene dopo sembra essere soltanto la cronaca di una morte annunciata. Alla sorella Maria confessa sconsolato: “Mi sento solo e sono un cadavere ambulante”.

 

 

 

Succede però qualcosa di inaspettato che sembra contrastare con la logica degli eventi così come ve li ho raccontati fino ad ora. Il presidente del Consiglio dei ministri Giulio Andreotti, subito dopo l’attentato dell’Addaura, telefona per dargli solidarietà e, a breve distanza di tempo, il socialista Claudio Martelli, vice presidente del Consiglio e Ministro della giustizia del sesto governo Andreotti, lo chiama a Roma per affidargli l’incarico di Direttore Generale dell’Ufficio Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia.

 

Qualcuno pensa che si ripete la storia di Cesare Mori che, giunto con le indagini settanta anni prima al terzo livello, viene fatto senatore da Mussolini e spedito a dirigere un consorzio di bonifica nel Friuli. Ma non era così. Si capirà di lì a poco. La nuova carica gli dà l’opportunità di costruire efficacissimi strumenti giuridici contro la mafia e di sottrarre ai veleni di Palermo la direzione delle indagini. Gli permette soprattutto, però, di salvare il maxiprocesso che in quel momento era sub judice alla Cassazione.

 

Martelli e Falcone riescono ad introdurre il principio della rotazione nella competenza dei giudici di Cassazione ottenendo per la revisione un collegio giudicante imprevedibile che, in effetti, pochi mesi dopo conferma le sentenza palermitana vanificando le speranze della cupola di farla franca.

Diventano così definitivi 19 ergastoli per i capi e 2000 anni di carcere per i gregari. Che cosa era successo? Qual è il senso degli eventi? Come mai quei vertici politici che certamente all’inizio degli anni Ottanta erano i massimi responsabili di quell’equilibrio del terrore che permette ai Corleonesi di crescere e prosperare, mutano adesso strategia e tentano di regolare i conti con la mafia, distruggendola? E’ questo, sul piano storico politico il quesito più importante a cui non è semplice dare una risposta univoca e certa. Noi possiamo solo portare congetture logiche in linea con le considerazioni svolte, ma anche con quanto emergerà dal processo che più tardi si aprirà contro Giulio Andreotti. I massimi responsabili del governo dello Stato italiano si rendono finalmente conto che la mafia non è più uno strumento controllabile e che il suo potere di ricatto verso le Istituzioni non ha più antidoti di sorta. Si tratta o di rassegnarsi alla ipotesi che lo Stato italiano diventi nel tempo uno Stato criminale progressivamente occupato da una mafia sempre più potente, oppure si tratta di reagire alla strategia stragista e riportare la mafia a livelli subordinati. Ed è probamente questo il senso dell’affermazione di Claudio Martelli che subito dopo l’omicidio Falcone, intervistato dalla televisione non porge sdegno e condanna per quanto è successo ma si limita a dare pubblicamente un avvertimento: “Con questa strage la mafia ha fatto un pessimo affare” . Come a dire: adesso non abbiamo altra alternativa che quella di distruggervi. Ciò che accade dopo la morte di Falcone e di Borsellino, con l’apertura di una presunta trattativa tra Stato e mafia è ancora tutto da chiarire. La convinzione diffusa è che il nuovo vero patto d’intesa tra Stato e mafia, come dimostra il processo al senatore Marcello Dell’Utri, giunga con la formazione di Forza Italia e l’ascesa al governo di Silvio Berlusconi. Comunque stiano le cose, tuttavia, mi sembra chiarissimo che anche dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, c’è stato chi, dentro le istituzioni, ha pensato di poter ricondurre la mafia ad un livello di subalternità rispetto alla politica. E’ ancora questo lo stato dell’arte nella lotta alla mafia?

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Marcello Saija

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