Alla terza serata su cinque del festival, siamo arrivati al consueto mix di esasperazione, autoesaltazione e analisi dell’ombelico dei primi opinionisti che cominciano (come ogni anno) a chiedersi se c’è davvero bisogno di Sanremo, se la formula sia vecchia, se sia adeguata ai tempi, se si può inventare altro eccetera. Ahinoi, questo articolo non sfugge.
Sui giornali italiani sulle radio in tv (almeno sulle reti Rai, l’azienda produttrice) ma anche su Facebook per i boomer o su X non si parla di altro, una coltre anestetizzante e rassicurante che fra musica, siparietti, ospitate, riesce a far dimenticare il mondo lì fuori. È un rito collettivo Sanremo, magari una catarsi, anche le critiche sono rituali; ma sta di fatto che milioni di italiani lo seguono ipnotizzati. Ogni anno, senza scampo. Gli ascolti della terza serata hanno passato i 10 milioni: almeno un italiano su sei.
E quindi ecco qualche nota spigolando. L’idea di quest’anno, per vivacizzare un po’, è stata suddividere i trenta cantanti in gara (una lista infinita; il direttore artistico nonché conduttore Amadeus ha detto che non riusciva a sceglierne di meno, ma qualche idea gliela avremmo potuta dare tutti) alla seconda e terza serata in 15+15, però presentati dagli altri 15, tanto per farli riapparire sul palco (stasera, venerdì, sarà invece l’attesissimo momento dei duetti: cantanti con ospiti a interpretare cover, vero frizzo musicale del festival).
Intanto, una menzione d’onore a Giuliano Sangiorgi (Negramaro) e Diodato: che piacciano o meno almeno sono le uniche canzoni in gara scritte da soli, testo e musica, invece della sfilza di nomi (spesso gli stessi, perché le logiche commerciali del festival sono formulaiche) della maggioranza dei brani.

Nota di merito anche a Teresa Mannino, co-conduttrice della serata. La comica siciliana non risparmia la sua vena abituale di amarezza sotto le risate; dalla conferenza stampa quando ha cominciato a parlare dell’Italia come colonia americana (per questo John Travolta si è portato le scarpe con lo sponsor in scena, dice: fa quello che vuole), accanto a un Amadeus che per limare qualunque asperità usa sempre un sorriso ammiccante (come a dire “si scherza”: no no, non si scherza affatto); al monologo arrivato a mezzanotte e passa in cui Mannino esalta le formiche, che c’erano già sulla Terra quando si estinsero i dinosauri, e che fanno quasi solo femmine perché la regina sceglie il sesso, mentre i maschi, pochi, sono usati solo per la riproduzione, come tenere lo sperma sul comodino: buona idea. E loro? Vita breve ma felice, “tutta una scopata”. Mannino appunto riesce a far passare di tutto, ma il pubblico ride, che è un buon segno: pare che non si scandalizzino.
Scandalo invece sui commentatori social perché qualcuno si è accorto, in ritardo, che l’esibizione di Rosa Chemical mercoledì sera dal Suzuki Stage allestito in piazza Colombo aveva un dettaglio particolare sulle proiezioni a schermo dietro l’artista, all’anagrafe Manuel Franco Rocati: per pochi secondi si son visti volare dei falli stilizzati (qualcuno li ha scambiati per coniglietti, lì per lì). Apriti cielo: la fiera del cattivo gusto, provocazioni inutili, falsa arte ecce cc. Lui stava cantando la sua “Made in Italy”, hit dell’anno scorso.

E ancora: ad allietare la serata all’Ariston è arrivato Russell Crowe, l’ex gladiatore che comunque nonostante il peso (ma non facciamo body shaming) riscuote ancora successo fra le signore e i signori, modello bear. L’australiano è venuto in veste di cantante rock, la sua seconda o forse prima passione; ma siccome è spiritoso, si è riproposto brevemente anche nel Ballo del Qua Qua a cui era stato costretto mercoledì sera John Travolta (che pare non abbia apprezzato tanto che non ha dato, sembra, per ora, la liberatoria e quel siparietto lì non lo rivedremo mai più. Forse). Abbiamo anche avuto il piacere di ammirare l’attore Edoardo Leo, sempre una botta per gli ormoni in sala.
Altre comparsate: Gianni Morandi, inossidabile come sempre, e Eros Ramazzotti che infiamma il pubblico cantando Terra promessa, il brano con cui vinse al Saremo Giovani di alcuni secoli fa, start della sua carriera (in effetti era il 1984, fate i conti, 40 tondi tondi, come eravamo giovani).

Nel suo caos multiforme, nella sua melassa rassicurante, c’è posto anche per l’appello contro le morti bianchi cioè i decessi sul lavoro, tema portato da Paolo
Jannacci e Stefano Massini. “Qui siamo al Festival della canzone italiana, parliamo tanto d’amore. Ma c’è un amore di cui non si parla mai. Ed è l’amore per i nostri diritti, i diritti che ci spettano, chiunque tu sia. C’è una parola che mi piace ricordare, ed è la parola dignità. Viva la dignità”. Bellissimo, ma appunto c’è posto per tutto, tanto poi arriva un mazzo di fiori o una battuta sdrammatizzante
Sanremo dovrebbe essere lo specchio dell’Italia e Amadeus il suo sacerdote officiante per l’ultima volta; ha promesso. Siamo oltre la metà della kermesse; l’Italia riflessa che ne esce non sarebbe francamente esaltante, neanche musicalmente, e anche le asperità scorrono nel grande fiume senza farsi troppo notare. Gli italiani si dividono in tre: quelli che si appassionano, quelli che “io Sanremo no che palle” e quelli che semplicemente lo ignorano. Scegliete voi dove volete stare; la domanda più interessante adesso non è tanto chi vincerà (Angelina Mango continua a essere in pole) ma chi officerà dall’anno prossimo.