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Il soul italiano arriva a New York – Intervista a Serena Brancale

Il 7 luglio salirà per la prima volta sul palco del Blue Note: tra i suoi riferimenti Ray Charles, Ella Fitzgerald e un’idea di musica senza etichette

Monica StranierobyMonica Straniero
Il soul italiano arriva a New York – Intervista a Serena Brancale

Serena Brancale. Photo courtesy: Helpemdiapr

Time: 4 mins read

Non viene dal pop da classifica, ma dai live. Non insegue la canzone d’autore, ma il suono. E non canta in inglese, ma in barese, soul, jazz, elettronica. Serena Brancale, musicista pugliese con un passato da conservatorio e una carriera costruita sul palco, il 7 luglio suonerà al Blue Note di New York, storico club nel cuore di Manhattan.

Intanto in Italia Anema e Core Tour continua ad allungarsi, con sei nuove date estive, un gran finale al Teatro Arcimboldi di Milano, e Serenata, la hit con Alessandra Amoroso che ha trasformato pizzica, flamenco e sirtaki in una danza popolare da milioni di ascolti.

L’abbiamo raggiunta alla vigilia della partenza per New York.

Dopo essersi esibita nei Blue Note Club di Tokyo, Shanghai e Seoul, arriva ora per la prima volta a quello di New York. Che significato ha per lei calcare questo palco, in una città simbolo per la musica jazz e soul?

Il Blue Note di New York è uno dei templi sacri del jazz mondiale, ci sono passati tutti i miei miti, da Ray Charles a Ella Fitzgerald: è un sogno che si avvera. Ho già suonato in passato all’Istituto Italiano di Cultura a New York ed è stata un’esperienza meravigliosa, ora non vedo l’ora di affrontare questa nuova sfida, sono molto emozionata.

Da Sanremo ai club internazionali, passando per brani come Baccalà o La Zia, il suo percorso sembra sfuggire alle etichette. Quanto è importante per lei non essere “catalogabile”?

Non mi piace essere incasellata. Vengo dal conservatorio, ho studiato jazz, ma amo anche il pop, il soul, e mi piace sperimentare, giocare con la musica. Mi sono sempre chiesta: perché dovrei vergognarmi se mi diverte imitare Paola Cortellesi o se ascolto techno? Non siamo mai una cosa sola, e trovo bello abbracciare tutte le sfumature di ciò che amo.

Serena Brancale live – Photo: Michele Ritò
Serena Brancale live – Photo: Michele Ritò

Nei suoi brani mescola groove, jazz, dialetto barese, ritmi mediterranei e soul. Come riesce a tenere insieme queste identità sonore senza perdere coerenza?

Ho sempre seguito l’istinto, lanciandomi in progetti molto diversi tra loro: dall’omaggio a Pino Daniele fino a oggi, dove continuo a esplorare nuove sonorità senza preoccuparmi troppo delle etichette. Alla fine, faccio semplicemente ciò che mi appassiona, e credo che sia la scelta più autentica. Per me non esistono confini tra i generi: jazz, soul, house, musica popolare, sono tutte espressioni dello stesso linguaggio. Perché, in fondo, la musica è una sola.

Il dialetto è spesso presente nei suoi testi, anche quando la musica si muove su registri internazionali. In un contesto come quello americano, sente il bisogno di tradurre o lascia che il suono parli da sé?

Il suono parla da sé, non ha bisogno di traduzioni. Però mi diverte giocare con le lingue, oltre che con i dialetti. In Asia, ad esempio, chiedevo al pubblico di suggerirmi una frase nella loro lingua, la registravo con la loop station e improvvisavamo insieme. È stato davvero divertente. Quello che però mi ha colpito più di tutto è stato il livello di coinvolgimento: conoscevano le mie canzoni, anche senza parlare italiano. Ricordo una conversazione con Fabrizio Bosso, un jazzista straordinario, che mi disse che in Giappone o in Cina avrei incontrato un pubblico di un’educazione incredibile. E aveva ragione. Al Blue Note mi sono trovata davanti a cinesi e coreani che non avevano alcun legame con l’Italia, ma che si erano informati su di me prima del concerto. Sapevano chi ero, conoscevano i miei brani. Non erano lì solo per ascoltare Anema e Core, ma per sentire Serena Brancale. Ed erano entusiasti anche di tutto il resto del repertorio. Un’esperienza inaspettata, intensa, profondamente emozionante.

Dopo essersi esibita nei Blue Note Club di Tokyo, Shanghai e Seoul, arriva ora per la prima volta a quello di New York
Dopo essersi esibita nei Blue Note Club di Tokyo, Shanghai e Seoul, arriva ora per la prima volta a quello di New York

Con Serenata e Anema e Core ha mostrato una forte connessione con la tradizione musicale del Sud, ma con una scrittura contemporanea. Come nasce questo equilibrio tra rispetto e riscrittura?

Quando compongo, parto sempre da ciò che sento profondamente mio: il Sud, il dialetto, le emozioni legate alla mia terra. Da lì inizio un viaggio che porta tutto questo in una dimensione nuova, fatta di arrangiamenti moderni, groove, jazz ed elettronica. In Anema e Core, ad esempio, ho scelto un titolo napoletano ma ho cantato in barese: è stato un gesto d’amore verso Pino Daniele, che mi ha insegnato quanto il dialetto sia una forza musicale potente e universale. Per me è un processo naturale: raccolgo la ricchezza della tradizione, le melodie popolari, i suoni di casa, e li intreccio con beat contemporanei, loop, influenze urbane. Un esempio perfetto è Serenata, il brano con Alessandra Amoroso: lì abbiamo unito flamenco, sirtaki, pizzica e soul, creando qualcosa che affonda le radici nella terra ma ha un’anima fresca, pop, quasi tribale. Alla fine, è questa la mia verità artistica: trasformare le origini in un linguaggio personale, che unisce memoria e presente senza perdere mai autenticità. È da lì che nasce il mio suono.

Nei suoi live c’è una componente molto fisica, quasi teatrale. Quanto conta per lei il corpo nella performance? Pensa alla voce come parte di un gesto più ampio?

Ogni passo è frutto di una scelta precisa, nulla è lasciato al caso. Sul palco non improvviso: ogni gesto, dal grido “la zia”, fino al colpo sulle percussioni, è studiato e costruito insieme al respiro e alla voce. Il mio live è un flusso continuo, elegante ma anche ruvido, dove ogni brano diventa un movimento consapevole, parte di un disegno chiaro. Nulla è casuale, tutto ha un senso e tutto parla. In questo tour in Italia, a rendere l’esperienza ancora più viva e potente, c’è anche un corpo di ballo interamente made in Puglia. Un’energia che viene dalla mia terra e che porta sul palco ritmo, radici e identità.

Se dovesse pensare a un artista americano – passato o presente – con cui immaginerebbe una collaborazione, anche solo ideale, chi sceglierebbe e perché?

Sono cresciuta ascoltando la musica di Stevie Wonder, e cantare con lui sarebbe per me un sogno immenso. Non dimenticherò mai il suo concerto all’Arena di Verona: fu proprio quella sera che decisi di voler approfondire lo studio del pianoforte, oltre al canto. Tra tutti gli artisti, lui resta il mio punto di riferimento assoluto, sia a livello musicale che vocale e melodico.

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Monica Straniero

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