Justin Timberlake ha scelto il palco di Milano per riapparire in pubblico dopo settimane in cui il suo nome era ovunque — sulle testate scandalistiche, nei talk show, sui social. Nessuna dichiarazione, nessuna allusione. All’Ippodromo Snai San Siro, dove ha inaugurato l’edizione 2025 del festival I-Days, l’uomo che vent’anni fa cantava Cry Me a River ha portato in scena uno show cesellato, tecnologico, meticoloso. In scaletta, tutto sembrava già previsto: un’ora e mezza di pop elettronico, coreografie spietatamente perfette, groove martellanti e un’impalcatura visiva degna di un blockbuster hollywoodiano. Se qualcuno si aspettava un momento umano, un’intimità, è rimasto deluso. Ma forse era proprio questo il punto.

Il Forget Tomorrow World Tour è un titolo che suona quasi come una negazione, un moto di fuga. È il nome che Timberlake ha dato al ciclo di concerti che segue l’uscita di Everything I Thought It Was, il suo sesto album. Un disco che, come il concerto stesso, evita la confessione e preferisce il controllo. Lo dice anche la scelta di Milano: una sola tappa italiana, una capitale della moda e del design, dove tutto può sembrare bello, elegante, freddo.
Il concerto si apre con No Angels e si chiude con Can’t Stop the Feeling!. Ad accompagnarlo sul palco, una superband di diciassette elementi — i Tennessee Kids — capaci di rendere ogni brano una macchina a orologeria. I classici ci sono tutti: SexyBack, Rock Your Body, My Love, Mirrors. Ma convivono con i pezzi nuovi, meno brillanti, più scuri: Sanctified, Imagination, Technicolor. Il suono è compatto, filtrato, come se fosse stato lucidato più volte per rimuovere ogni rischio, ogni imperfezione.

Non c’è un filo narrativo che prometta una rinascita o una redenzione: Timberlake non chiede empatia per ciò che ha passato, vuole solo che il pubblico guardi ciò che sa fare. Il contesto, però, è impossibile da ignorare. A giugno dell’anno scorso è stato arrestato a Sag Harbor, New York, per guida in stato di ebbrezza. Ha detto di aver bevuto solo un drink. Ma la foto segnaletica ha fatto il giro del mondo. Due settimane dopo, a Chicago, ha pronunciato le uniche parole che sembrano un indizio: “È stata una settimana complicata. So che non è facile amarmi a volte, ma voi continuate a farlo comunque”. Da allora il nulla..
Non è la prima crisi che Timberlake attraversa. Prima ancora delle mode del “cancel culture” e delle ristrutturazioni dell’identità maschile nello showbiz, lui era già diventato simbolo di un certo declino pubblico. La fine della relazione con Britney Spears, i controversi eventi del Super Bowl del 2004 con Janet Jackson, il lungo silenzio sul movimento #MeToo. Eppure, a ogni caduta è seguito un rilancio: un disco, un film, un palco. Come se Timberlake sapesse, da tempo, che l’unico modo per restare è non rimanere mai troppo a lungo nella stessa forma.
C’è qualcosa di profondamente americano in questa estetica del controllo. Timberlake si muove come un CEO del pop: sorride, lavora, non si sbilancia. E intorno a lui la scenografia si chiude come una corazza. Luci perfette, suoni ovattati, proiezioni mozzafiato. Eppure, anche in mezzo a questo impianto ipertecnologico, Timberlake trova una forma di umanità filtrata, come se fosse possibile essere sinceri solo attraverso il playback del corpo.
Accade verso la fine del concerto quando si sposta su un palco secondario al centro del pubblico, chitarra in mano, luci soffuse, voce nuda, per cantare What Goes Around… Comes Around, il tempo si dilata. La malinconia entra in scena, ma resta al guinzaglio. Timberlake è lì, senza troppe sovrastrutture. E, per un istante, non sembra difendersi da niente.