Con oltre trent’anni di carriera, Laura Pausini ha attraversato il pop europeo mantenendo intatta la propria identità: voce limpida, ballad tradizionali, una dimensione pubblica saldamente ancorata alla struttura classica della canzone d’autore italiana. Ma il 28 aprile ha compiuto un gesto inaspettato: ha pubblicato Turista, una cover del brano di Bad Bunny. Nessun annuncio, nessuna campagna promozionale. Solo un post sui social e poche righe a spiegare: “Come disse una volta Woody Guthrie: ‘Una bella canzone può fare solo bene’. Ho ascoltato Turista e me ne sono innamorata all’istante… così l’ho cantata ed eccola qua. Ci sono canzoni che non devono far parte di un nuovo disco o essere lanciate come singolo. Quando una canzone ti tocca il cuore, è bella in qualunque stile e in qualunque momento”.
Bad Bunny, artista portoricano che ha riscritto le regole del pop globale cantando in spagnolo, mescolando trap, reggaeton e musica tradizionale caraibica, e trasformando il corpo — il proprio corpo — in un campo di significato: fluido, queer, anti-patriarcale. Benito Antonio Martínez Ocasio è salito sul palco del Super Bowl con Shakira e J.Lo, ha sfilato al Met Gala in abiti Chanel, ha chiuso Coachella senza mai cedere all’inglese. È diventato il più ascoltato su Spotify nel mondo, rappresentando una nuova centralità culturale: quella dell’America Latina non tradotta.
La scelta di Pausini non è un semplice omaggio a un collega di successo, ma un’apertura verso una lingua musicale e politica molto diversa dalla sua. Una voce adulta, formatasi in un’estetica del controllo vocale ed emotivo, si misura con una canzone che porta con sé un’identità frammentata, postcoloniale, popolare e postmoderna.
A quasi un mese dall’uscita del brano, è arrivato anche il video. Girato a Miami, città ibrida per definizione, il clip rinuncia a ogni costruzione formale: niente coreografie, nessuna regia invasiva. Un oggetto semplice, quasi domestico, che ribadisce il carattere laterale di tutto il progetto.