Antonio Ciacca, nato nel 1969, studia sin da bambino pianoforte, abbandonandolo pochi anni dopo per seguire la passione del calcio. Ancora studente del liceo, dopo aver assistito ad un concerto jazz, decide di lasciare il calcio e riprendere a studiare lo strumento che aveva abbandonato da ragazzino. Nel frattempo si iscrive al Dams di Bologna, città nella quale incontra il sassofonista newyorkese Steve Grossman, da poco trasferitosi nel capoluogo emiliano e dal quale prende lezioni per alcuni anni. Ma l‘incontro è decisivo: Antonio lascia il Dams e si iscrive al Conservatorio di Bologna.
Dopo il diploma e le lezioni con lui, Grossman gli suggerisce che è il momento di approfondire il mondo jazz e la sua cultura, compreso tutto ciò che è alla base di quella musica così esclusiva e libera. Oramai le premesse artistiche e le tecniche ci sono tutte per comprendere il senso di quel genere musicale, la sua cultura, i luoghi e il contesto in cui il jazz è nato, vissuto, diffuso. Con un application al Lincoln Centre, nel 2007 vince il concorso per Direttore Della Programmazione al Jazz al Lincoln Center. Dal 2009 al 2012 insegna alla Juilliard School di New York. Dal 2016 diventa cittadino americano. Oggi vanta unmaster al City College di New York, ed è dottorando alla Stony Brook University. Vive a Pelham, NY, con sua moglie e solo… cinque figli.
La sua vita è ricca di studi, esperienze, successi e tanta originalità. Antonio non perde occasione per suonare, migliorare, studiare. Il suo mondo è un meraviglioso ingranaggio che gira, da sempre, all’insegna della musica, dell’insegnamento e del jazz.
Parliamo a lungo io e Antonio. Parliamo dell’arte e di quanta sia appassionato di musica e di jazz. Dell’importanza dello studio e di quanto le nuove generazioni sottovalutino la difficoltà che questo genere musicale impone e che Antonio considera una vera e propria “evoluzione della musica classica”. Mi conferma che nei ragazzi riscontra molta ambizione ma non passione: nessuna curiosità musicale, solo esecuzione dei pezzi; nessun desiderio di conoscenza, solo la voglia di stare su un palco, di farsi ammirare – vittime di narcisismo ed edonismo giovanili – mentre, da parte sua, tanta delusione.
Mi spiega che per improvvisare nel jazz ci vuole esperienza, maturità, cultura. Capacità di comprendere gli spartiti che hanno scritto i grandi del jazz, non certo tramite lo studio dei personaggi o, almeno, non solo quello. Piuttosto le loro vite, vissute all’inseguimento della musica e di quel fervore che riusciva a mantenere sempre acceso l’interesse e la passione; i loro studi e i sacrifici per suonare nonostante gli impedimenti, le difficoltà, gli ostacoli che la vita mette di fronte. Senza dimenticare che spesso, non potendo permettersi di mantenersi solo con i concerti (o sostenere il costo delle lezioni), svolgevano lavori lontani dal mondo della musica: Charles Mingus che era un impiegato delle poste, Sonny Rollins lavava le scale nei palazzi; McCoy Tyner spediva lampadari, Eliot Zigmund guidava i taxi, Cannonball Arderley insegnava, Charles Ives, era assicuratore. Infine, Duke Ellington e Arnold Schoenberg erano anche pittori…
Gli chiedo quale sia il motivo di questa superficialità, da dove pensa possa derivare. Antonio è certo che sia legata ai metodi di insegnamento, purtroppo, spesso non alimentati da vera passione e autentico desiderio, tantomeno dal tentativo – obiettivo – di far vibrare certe corde, giusto per rimanere in tema, di giovani talentuosi. Per intenderci, nulla di attinente alle parole con le quali si spiegherebbe Umberto Galimberti in tema di educazione e insegnamento: “nessuna intesa erotica a far pulsare quell’interesse, quella passione”. Piuttosto sterili metodi legati esclusivamente a tecnica e ritmo, ovvero a ciò che sta alla base della musica, non del jazz. Inoltre, a malincuore mi confida che di fronte alla complicatezza e alla grandiosità della musica classica, spesso molti ragazzi scelgono il jazz come escamotage per eludere l’impegno e il sacrificio che la musica classica impone e richiede. Ma ciò rappresenta esattamente l’incorrere nell’errore maggiore, perché è proprio da lì che il jazz deriva, in quanto “evoluzione stessa della musica classica”. E prosegue: “Nessuno studente o, quasi nessuno, ha idea di cosa significhi la parola “armonia”. L’armonia è come la metrica in un dialetto. Puoi spiegare il dialetto napoletano a un americano che conosce l’italiano e la grammatica italiana? No. Puoi insegnarglielo? No. Puoi solo invitarlo a recarsi a Napoli, sul posto. Viverlo. Perché ci sono cose che per essere comprese non possono essere distaccate dal loro contesto storico, sociale e culturale. Che è il posto in cui si cela la verità. Il suo stesso senso. Così è per il jazz”.
Mi sento privilegiata ad ascoltare Antonio. Perché è solo in questa dimensione che può essere spiegata l’arte. Gli chiedo come possiamo difendere “la bellezza”: dal Covid, dalla staticità che ci ferma, dalla distanza sociale che ci impoverisce. “Concentriamoci su ciò che abbiamo. Non su ciò che non abbiamo. Così mi rispose una volta Dick Katz… Perché possiamo alimentare quella bellezza impiegando il tempo che abbiamo a disposizione oggi. Perché non ricapiterà più. Possiamo studiare, approfondire, imparare, arrangiare pezzi, anche insegnare”.
Aspetterò il prossimo venerdì per assistere al concerto che si terrà dalla sede dell’Istituto Italiano di Cultura a New York in occasione della rassegna jazz “With Jazz We Insist”. Il 13 novembre alle ore 4 pm americane (22.00 italiane) si esibirà l’Antonio Ciacca Quartet nel concerto Fource for Four, con Antonio Ciacca al pianoforte, Giuseppe Cucchiara al basso, Marcello Pellitteri alla batteria, Dayna Stephens al sax. Stay tuned dunque!