Sentire suonare la sua tromba ogni volta regala un turbinio di emozioni e suggestioni difficili da descrivere, le quali ormai non conoscono confini riuscendo a girare per l’intero globo senza più fermarsi.
Fraseggi di note che con maestria riesce a fare uscire da quel strano oggetto a forma cilindrica come se fosse ormai un prolungamento genetico del suo corpo, o un ottimo compagno di viaggio da cui è impossibile distaccarsi.
Stiamo parlando del trombettista Fabrizio Bosso, un esponente di primo piano del panorama jazz italiano con importanti esperienze internazionali. Torinese, lui, classe 1973, ha iniziato a suonare la tromba dall’età di 5 anni e continua tutt’ora a farlo con la stessa passione ed entusiasmo di quando era un bambino.
Un bambino, ora 40enne, che con interesse a risposto ad alcune domande poste da La Voce di New York:
Com’è nata la tua passione per il jazz?
“I miei studi in musica classica si sono sviluppati parallelamente a quelli riguardanti il jazz anche perché era un genere musicale che si ascoltava in famiglia sin da quando ero bambino. Mi sono diplomato al conservatorio di Torino e dopo aver fatto un anno di perfezionamento in un’apposita scuola mi dedicai da quel momento principalmente al jazz”.
Lungo la tua carriera hai collaborato con diversi artisti anche musicalmente distanti dal mondo del jazz. Sperimentare fra diversi generi è ancora un ottimo ingrediente per produrre buona musica?
“Sono cresciuto vivendo la musica a 360 gradi, ascoltando grandi artisti come Gino Paoli, Sergio Endrigo. Tra l’altro, già dai tempi del conservatorio iniziavo a sperimentare proprio sulla musica pop che continuo ad ascoltare quindi per me è stato naturale collaborare con grandi artisti della musica leggera italiana. Inserire il mio fraseggio nei loro pezzi non è stato una forzatura ma qualcosa di armonico”.
Parlarci del progetto “Duke”.
“L’album Duke è nato da una suggestione che è venuta fuori due anni fa dal Festival jazz di Roma in cui mi chiesero di lavorare ad un progetto che potesse dare un tributo allo swing e quindi mi venne subito in mente Duke Ellington forse uno degli artisti che nel tempo ho assimilato meglio. Ho messo su un quartetto allargato, uno sorta di big band composta da undici elementi, e grazie al contributo di un arrangiatore strepitoso come Paolo Silvestri è stato possibile arrangiare sei brani che compongono il disco uscito su etichetta Universal Verve.
Attualmente stiamo portando la big band in tour registrando un positivo riscontro anche perché girare in undici persone non è impresa facile”.
Come vedi l’attuale scenario jazzistico italiano rispetto al contesto internazionale in cui ormai ti esibisci con grandi risultati?
“Sicuramente il livello degli italiani è davvero altissimo con giovani che suonano molto bene e artisti già affermati che non hanno nulla da invidiare ai jazzisti americani, anche se si tratta di un genere che affonda le proprie radici oltreoceano. Posso dire che le cose negli ultimi anni sono cambiate, infatti oggi è possibile per i talenti italiani esibirsi all’estero senza sfigurare”.
Ultimo disco acquistato?
“Mi ha incuriosito ed ho acquistato l’album di Francesca Michielin, la cantante seconda classificata all’ultimo Festival di Sanremo, a dimostrazione del fatto che sono un’artista poliedrico che cerca di ascoltare un po’ di tutto”.
I tuoi rapporti con la città di New York?
“Ci sono stato tre volte dove mi sono esibito in diversi jazz club della città, tuttavia per un jazzista europeo suonare a New York in contesti di un certo livello non è cosa facile a meno che uno non decida di trasferirsi nella grande mela per lungo periodo necessario per prendere contatti e fare network”.
Progetti da realizzare?
“E’ già uscito un disco con la partecipazione di Fabio Concato. Con lui è nata l’idea di formare un trio che definisco “intimo” con il quale stiamo girando parecchio con grandi soddisfazioni”.