Autore, compositore, iphoneographer, videomaker, conduttore tv…Frankie Hi-Nrg MC non ha fatto solo il rapper nella vita, quello per cui è oggi famoso e riconosciuto. Francesco Di Gesù, questo il suo nome all'anagrafe, è uno che dalle rime è passato ad altro, e poi ad altro e poi ad altro ancora, senza mai fermarsi, anzi lavorando per non sentirsi arrivato e muovendosi con estrema maestria e disinvoltura in quello che lui stesso definisce il suo harem artistico.
In oltre vent'anni di carriera, dal suo esordio a oggi ha vissuto l'evoluzione del rap in Italia, un genere che ha mosso i suoi passi imitando i fratelli statunitensi, dove il rap è nato, ma che ha assunto nel nostro Paese una forma e un carattere propri e distintivi, pur muovendosi in quella grande “macedonia di frutta” che è l'hip hop. Concepisce il rap unicamente come uno strumento per proporre social issues, raccontare un punto di vista, descrivere, far venire dubbi alle persone e provocarle, e questo continua a fare, nonostante oggi logiche forse più commerciali spingano i rapper semplicemente a soddisfare le esigenze del pubblico o a esprimere il loro ego.
Muovendosi con sincerità, quella che considera l'unica strategia per restare a galla nel mare magnum di oggi, Frankie Hi Nrg MC non si è fermato solo alla musica, anzi sente di dover ancora raggiungere altri obiettivi, come la scrittura di un libro, la direzione della regia di un film, o l'essere riconosciuto anche come fotografo, una passione che ormai coltiva da anni e che proprio a New York sembra aver iniziato a prendere una piega (proprio in questi giorni, in uno dei quattro Piccolo Café di New York – e questa è una notizia che comunica in anteprima a La VOCE – c'è una mostra di sue fotografie, scatti realizzati nello Zambia che vale la pena andare a vedere).
Stasera, mercoledì 7 ottobre, Frankie Hi Nrg MC sarà al Bowery Electric per sostenere, insieme ad altri artisti (la Indie Band Tre Allegri Ragazzi Morti, la cantautrice triestina Chiara Vidonis, Polo, Roipnol Witch e il Dj Ricky Russo), il secondo party ufficiale della neonata Radio Nuova York, la web radio creata da Ricky Russo e Alberto Cretara (Polo) che vuole raccontare l'atmosfera italiana, introducendo i nuovi talenti e fornendo continui aggiornamenti sulle novità e gli eventi musicali. Con lui, approfittando della sua presenza newyorchese, ci siamo fatti una chiacchierata, scoprendo che, dopo oltre vent'anni di rime in musica, di cose da raccontare Francesco ne ha ancora eccome, e non solo con le parole.
Che differenze ci sono tra il rap italiano e il rap americano?

Foto: Carolina Galbignani
Chiaramente quello americano è il rap delle origini, quindi all'avanguardia per tanti versi. Noi italiani abbiamo mutuato la cultura hip hop e l'abbiamo impreziosita con il nostro contributo, con la nostra lingua, il nostro carattere nazionale. Le differenze sono come quelle che ci sono tra il rap tedesco e quello francese: è una cultura sulla quale si installano altre culture, culture hip hop, che di per sé è una grande macedonia di Jamaica, Stati Uniti, Africa, Latino America; noi ci insediamo la nostra cultura, il nostro contributo, costruendo l'hip hop, che è costruito da questo mucchio di pezzi di culture tenute insieme dalla passione e dall'attenzione alla Terra, per il sociale, dall'espressione del proprio ego. Tutte le differenze sono quelle proprie dell'hip hop, più che questioni di carattere squisitamente nazionale.
Da quando hai iniziato e ti sei affermato come rapper in Italia, negli anni 90, come hai visto cambiare il contesto in cui hai operato e continui ad operare ancora oggi?
Quando ho iniziato io, l'esigenza diffusa era quella di utilizzare il rap come strumento per proporre social issues, esigenza che oggi è molto meno sentita. Adesso i rapper parlano di se stessi e in molti casi descrivono un immaginario più che storie reali. Prima era una forma di espressione, di racconto, di cronaca; adesso c'è un po' più di fiction.
Chi è oggi il rapper in Italia? Che ruolo ha?
Oggi il rapper è molto attento alle esigenze del pubblico e tende a soddisfarle. Il pubblico ama riconoscersi in un certo immaginario e questo immaginario viene raccontato con grande piacere da molti esponenti del rap italiano, facendo una cosa che poi esiste anche nel rap americano e nell'hip hop in tutte le sue varie espressioni. A me veniva naturale, allora come oggi, usare il rap per raccontare un punto di vista, per descrivere, per far venire dei dubbi alle persone, delle curiosità, per provocarle, anche per farle star male, ma questa secondo me è la funzione di un artista. Altri, invece, preferiscono far star bene il pubblico e rassicurarlo, un atteggiamento che sinceramente non condivido troppo. Il pubblico, per come la vedo io, deve ricevere, non proporre, e a seconda di quello che riceve e di come lo riceve, poi giudicare se gli piace o meno. Non è il pubblico a dover scrivere le canzoni, deve scoprirle, deve appassionarcisi, non deve aspettarsi nulla, anzi se t'aspetti qualcosa io cercherò di fare il contrario di quello che ti aspetti. Certo è che dall'altro punto di vista, nel momento in cui tu rassicuri le persone, è molto più facile che queste persone comprino i tuoi dischi e vengano ai tuoi concerti.
Oltre a fare il rapper, tu sei anche autore, compositore, iphoneographer, videomaker, conduttore tv…come hai dichiarato in un'intervista, vivi in una sorta di harem artistico. Nell'evoluzione planetaria che sta vivendo l'informazione, quale pensi sia oggi lo strumento più efficace per comunicare qualcosa?
La sincerità coniugata con il mezzo di comunicazione moderno, quindi il web, i cosiddetti canali 2.0, indubbiamente quelli che permettono una diffusione più capillare di quello che si vuole dire. Anche perché il pubblico è lì, per cui e lì che devi farti sentire. Se io facessi una canzone e la incidessi sui cilindri di cera come faceva Edison 200 anni fa, la sentirebbero in 3 probabilmente. Il mezzo deve essere commisurato all'intento. La sincerità fa sì che io mi ponga in maniera coerente con la mia idea.
Ti senti arrivato o ci sono altre sfide che vorresti raccogliere?
Non mi sento assolutamente arrivato. Sentirsi arrivato vuol dire che sei al traguardo, sei finito, ti metti in pensione. Spero non mi accada mai, lavoro per non sentirmi arrivato. Sicuramente ci sono dei traguardi ancora da raggiungere, come la scrittura di un libro o la direzione della regia di un film. Ultimamente sto lavorando molto con la fotografia e non mi dispiacerebbe potermi assestare anche come fotografo, essere conosciuto anche per quello. Sono obiettivi che mi sto ponendo e questa mia permanenza newyorchese mi sta dando una mano.
Non è la tua prima volta a New York, giusto?
No, è la terza volta che vengo.
Qual è il rapporto che hai con questa città?
La città mi piace molto, è variegata, c'è di tutto, è per tutti i gusti e si trovano tutte le sfumature di umanità possibili. Quello che mi piace sono le opportunità che vengono offerte, c'è una grande attenzione a promuovere le cose che piacciono, che è una cosa importante perché crea relazioni e riconoscimenti sociali. Quando fai una cosa buona, c'è il piacere di dirti bravo, cosa che invece a casa nostra succede molto meno, perché si cerca sempre di disprezzare prima di comprare, in una logica sbagliata che ci porta a deprezzare ciò che ci interessa. È un carattere nazionale che abbiamo diverso da quello che c'è qua, con i suoi pregi e i suoi difetti. Anche artisticamente parlando c'è una grossa differenza, rappresentata proprio dal tipo di attitudine che viene dimostrato da tutti.
Scapperesti dall'Italia per venire a lavorare qua a New York?
In maniera non definitiva, ma sicuramente sì e già ci sto lavorando. Anzi ti dò un'anteprima: in uno dei quattro Piccolo Café di New York, quello dietro Union Square, c'è una mostra di mie fotografie, che ho realizzato in Zambia. Sono 6 scatti fatti in alcune scuole lo scorso febbraio, quando ho accompagnato una ONG, che si chiama ACRA, che si occupa di istruzione e sanitizzazione delle scuole nel Sud del mondo. Ho sentito Michele, il proprietario del Piccolo Café che è un amico e un mio sostenitore, che mi ha detto che un sacco di gente si ferma a guardare le mie foto. Una città come questa ti dà l'opportunità di avere molto rapidamente un feedback di quello che fai: se una cosa non piace, te lo dicono e argomentano il perché. La sensazione è che qui ci sia sempre il tempo per dire: “Ah, bella questa cosa! Mi prendo la briga di dirti che mi piace”. In Italia succede molto di rado. Quando succede è fenomenale, ma quando succede.
Mercoledì sera sarai al Bowery Electric per il party ufficiale di lancio di Radio Nuova York, insieme al Dj Ricky Russo, Polo, Tre Allegri Ragazzi Morti e altri artisti. Che ci combinerete di bello?
Per quanto riguarda la mia performance, proporrò un po' dei miei rap dal primo album in avanti, fino ad arrivare al mio ultimo disco Essere Umani. Nella tradizione dell'hip hop, ci saranno due giradischi e un microfono: ai giradischi ci sarà Extra Polo e al microfono ci sarò io.
E se venisse qualche rapper statunitense a vederti?
Normalmente i rapper statunitensi tendono a guardare con un certo snobismo tutto quello che non è anglofono e c'è in generale un certo senso di primato, motivatissimo peraltro, e una certa puzza sotto il naso nei confronti di chi si esprime in una lingua che loro non comprendono, perché se la capissero condividerebbero pure. Però mi è capitato di trovare anche molta curiosità da parte di artisti e musicisti americani. La speranza è che dicano: “Come suona strano questo rap, però se fa muovere la testa va bene”.
È una sfida quella che lanci?
Assolutamente no, casomai propongo loro la mia pietanza. Non concepisco l'hip hop come una gara, ma come un grande banchetto, un grande pic-nic. Io quello che cucino io, per come lo so cucinare, lo porto e bello caldo. Ognuno porterà il suo e alla fine mangeremo tutti insieme.