Due sere a settimana piccole folle di newyorchesi ben informati si accalcano su un’anonima scalinata che conduce al secondo piano di un ristorante messicano su 54th Street. E non vanno solo di un piano in su, ma di 80 anni indietro nel tempo.
Si ritrovano in un night club, generalmente gremito, di un’altra epoca. Sul palco una band di 11 elementi in smoking, con i musicisti in piedi per gli assoli o gli ensembles, proprio come una volta. Dalla fila posteriore, li domina un turbine di energia dall’ossatura robusta e la mascella squadrata di nome Vince Giordano, circondato dal suo contrabbasso, la sua tuba, e il suo (piuttosto raro ) sassofono basso. Mentre conta le note per la prossima melodia, gli anni ’20 e ’30 della primavera jazz americana tornano in vita.
A dominare gli ingaggi per i musicisti jazz in quei decenni (e un poco prima e un poco dopo) erano le big band. Anche Louis Armstrong, i cui dischi più noti sono stati registrati con piccole formazioni, dalla Hot Five al successiva All-Stars, in realtà suonò per gran parte di quel periodo della sua carriera con le big band. Le incisioni con piccoli ensemble erano registrazioni in studio di carattere eccezionale, non il tipo di lavoro che faceva regolarmente.
Louise Armstrong
Le sue band, e decine di altre, trascorrevano la maggior parte dell’anno in tour, spostandosi di città in città per spettacoli di una o due sere nelle varie Cincinnati, Seattle e Denver d’America. Di solito suonavano in grandi sale da ballo e viaggiavano in autobus. Si poteva capire come una band se la passava dal fatto che uno dei musicisti dovesse o meno guidare l’autobus. La strada, soprattutto nei tempi in cui le band miste composte da musicisti bianchi e neri avevano regolarmente problemi con le sistemazioni in albergo, era difficile, ma i talenti musicali erano spesso eccellenti.
Se una sala da ballo o un night club avevano in calendario una o due “big name” band nel corso della settimana, riempivano molte delle altre sere della settimana con band regionali e orchestre locali, spesso molto popolari, che trovavano ingaggi vicino a casa. Ogni città di qualsiasi dimensione ne aveva. E sia le città che le stazioni radio e i network, avevano molte ore di musica dal vivo per tutta la settimana, a volte con collegamenti dai jazz club, altre volte con esibizioni negli studi radiofonici. Tutto andava a comporre a una vasta popolazione di musicisti che lavoravano regolarmente.
Non è più così. Diverse sono le ragioni del piuttosto rapido declino e la successiva morte delle big band, e molte sono ovvie. Lo spostamento verso le periferie avvenuto nel dopoguerra allontanò dalla vita metropolitana la maggior parte della gente che aveva abbastanza soldi per uscire la sera. Una programmazione televisiva sempre più attraente teneva una grossa porzione di America inchiodata al divano. I giovani, le future generazioni di pubblico, stavano perdendo interesse per il ballo e la melodia, e si sarebbero presto rivolti, passando per il rhythm-and-blues, verso stonati predecessori dell’hip-hop e del rap. Ma una figura chiave nel fare delle big band una specie in via d’estinzione fu un altro italiano-americano, un leader sindacale di nome James C. Petrillo.
Figlio di uno scavatore di fognature nato in Italia, Petrillo era cresciuto a Chicago e aveva lasciato la scuola dopo che gli ci erano voluti nove anni per superare la quarta elementare. Petrillo suonava la tromba, ma il suo grande talento era organizzare i lavoratori. Divenne capo della American Federation of Musicians nel 1940, e guidò il sindacato con pugno di ferro, senza tollerare il minimo dissenso fino a che venne messo in minoranza. La sua fama iniziò da uno sciopero degli studi di registrazione durato più di due anni, nel bel mezzo della Seconda Guerra mondiale. Lo stop alle registrazioni fece infuriare addirittura il presidente Roosevelt che riteneva che la musica fosse importante per tenere su il morale in tempo di guerra. La vicenda fece guadagnare a Petrillo la copertina di Time Magazine, ma, per la maggior parte dei musicisti – che, secondo il blog AllMusic , “disprezzavano calorosamente” Petrillo – il danno fatto alle big band dallo stop alle registrazioni in tempo di guerra e da altri due scioperi indetti da Petrillo dopo la guerra, fu irreversibile. L’intenzione di Petrillo era, a ragione, migliorare le paghe per i musicisti, soprattutto per le esibizioni in studio. Ma si rifiutò di prendere atto del fatto che i principali datori di lavoro dei musicisti venivano spinti oltre il punto di non ritorno, oltre la loro capacità di pagare.
All’inizio degli anni ’50 la musica dal vivo, una volta immancabile, era ormai quasi scomparsa tanto dai grandi network radiofonici quanto dalle stazioni locali. A titolo di esempio, la KVI di Seattle, che negli anni precedenti mandava in onda cinque programmi giornalieri di musica dal vivo, ed era solo una delle quattro stazioni in città a farlo, non poteva più permettersi trasmissioni del genere tanto che, nel 1952, il canale aveva ormai convertito le sue onde radio al nuovo fenomeno del momento, il disc jockey. Anche la grande NBC Symphony era un lusso che il network non poteva più permettersi.
Cosa insolita per i dirigenti sindacali americani, Petrillo non fu mai accusato di corruzione o disonestà. Ma i suoi errori tattici furono storici. In cerca di troppe uova d’oro, finì per uccidere l’oca.
E così le band regionali morivano come mosche nei primi anni ’50, e anche i grossi nomi dovettero ripiegare o diventare band part-time, andando in tour solo per un paio di mesi l’anno.
The Count Basie Band, 1940, Apollo Theatre, NY Harry ‘Sweets’ Edison (back row, 2nd from right). Photo by M. Smith from The Big Bands by George T. Simon
Count Basie e Duke Ellington riuscirono a resistere per un po’ e, quando nel 1959 la Basie band suonò nell’enorme sala del sindacato degli scaricatori di porto nei pressi di Fisherman’s Wharf a San Francisco, per tre sere la sala fu tanto affollata che c’era spazio solo per stare in piedi, senza poter ballare, né sedersi. Tutto perché girava voce che San Francisco non avrebbe mai più rivisto la band di Basie. La previsione non risultò del tutto esatta: la band fece comparsate in alcuni festival e in tour all’estero durante gli anni Sessanta. Ma perfino i musicisti di Basie erano costretti a trovarsi altri lavori per integrare il loro reddito in quei tempi di sempre più acuta crisi.
Fu così che il cambiamento di gusti, la geografia sociale, la televisione e gli errori strategici di James C. Petrillo produssero una complessiva riduzione del lavoro per i musicisti e una devastazione assoluta di quel tipo di formazione che aveva visto grossi assegni, costosi viaggi e una serie ininterrotta di date: la big band. Come cimeli di questo degradato paesaggio, rimasero le grandi sale da ballo sparpagliate in tutto il paese. Alcune vennero trasformate in concessionarie di automobili o in chiese evangeliche, ma quegli spazi si rivelarono particolarmente adatti a ospitare negozi di mobili.
I dischi c’erano ancora, naturalmente. Ma nell’epoca d’oro delle big band i dischi giravano a 78 giri al minuto e potevano contenere solo tre minuti e 20 secondi di musica, a volte un paio di secondi in più, il che comportava la necessità di accorciare le ripetizioni swing e, soprattutto, molto del tempo per gli assolo improvvisati dei grandi jazzisti che, per molti ascoltatori, erano la ragion d’essere delle band. I dischi sono preziosi, ma sono reperti archeologici, come ossa di dinosauro.
Ma ecco che ora arriva un vero e proprio dinosauro, un dinosauro vivente, non una ricostruzione da museo. Ecco che romba, picchia, vagisce e urla una big band che il New York Times ha definito “una fonte scoppiettante di euforia” e che qualche macchina del tempo deve avere, incredibilmente, depositato nel bel mezzo di Manhattan.
Vince Giordano, newyorkese-napoletano di Brooklyn
No, in realtà non è stata una macchina del tempo a compiere il miracolo, ma un mezzo-napolitano di Brooklyn, Vince Giordano, il bandleader descritto all’inizio di questo articolo, quello che porta la sua band, i Nighthawks, all’Iguana su 54th Street ogni lunedì e martedì sera. Sì, è un ingaggio regolare che disfa un poco di quello che James C. Petrillo fece quando contribuì a strozzare una grande era musicale. Dato che non c’è chi le faccia seria concorrenza, questa band la trovi ovunque, dal Newport Jazz Festival al Lincoln Center, e ha vinto un Grammy per la musica della serie televisiva Boardwalk Empire. Giordano stesso, come attore e musicista, appare in Cotton Club di Francis Ford Coppola e in Accordi e Disaccordi (Sweet and Lowdown) di Woody Allen. Il 12 febbraio, sarà alla Town Hall al centro di una celebrazione per il 90 ° anniversario della prima rappresentazione della Rhapsody in Blue di George Gershwin. Tutto ciò prova l’assoluta eccezionalità della musica di questa band, ma è il lavoro costante a tenerla a galla.
Il critico jazz Phil Schaap dice chiaro e tondo che se Vince Giordano e i Nighthawks stessero realmente suonando negli anni ’20 e ’30, sarebbero una delle band più importanti del mondo. E l’iniezione di materiale da quel periodo è costante. La collezione di Giordano di 60.000 arrangiamenti di quel periodo significa che ogni sera aggiunge nuove pagine agli spartiti piazzati sulle sedie di ognuno dei suoi musicisti. Spartiti che già compongono pile dell’altezza di tre elenchi telefonici di New York.
E mentre i musicisti si arrampicano su queste montagne di musica per trovare i pentagrammi per la melodia successiva annunciata da Giordano, lui ammazza il tempo offrendo al pubblico un breve corso sul background della musica. E se ha fatto da mentore a molti giovani musicisti, allo stesso tempo insegna qualcosa anche anche a tutti noi. Ma ciò che davvero aspettiamo è che inizi a contare: “….e due…. e tre…. e quattro”. Quel che viene dopo è pura beatitudine .