CHOCABECK! Un rumore più che una parola. In dialetto emiliano è lo schiocco del becco di un animale che non ha nulla da addentare. “Chocabeck” è un ricordo nella memoria di Zucchero (nella foto a sinistra) che torna a NY (Beacon Theater, 25 ottobre) per il suo World Tour. Stati Uniti e Canada, da Toronto a Chicago passando per piccoli centri come St. Catherines in Ontario e Collingswood in New Jersey, Zucchero presenterà proprio “Chocabeck”, l’album uscito di recente sul mercato Nord Americano in doppia versione, italiana e inglese. Un album che parte da Roncocesi, il paesino dove è cresciuto. Rievocati i suoni antichi, i sapori in via di estinzione, i personaggi che continuano ad esistere nei ricordi tutti legati alla famiglia contadina, alla nonna Diamante, al padre che gli rispondeva “ciocabec”, cioè nulla, quando lui cercava da mangiare. E’ un album di storie in cui Zucchero rispolvera vecchi detti e scherza pure sul colore del pelo
pubico femminile (Vedo Nero).
Hai appena compiuto il 56esimo compleanno festeggiato all’arena di Verona dove hai tenuto sette concerti. Perché sei così affezionato a quel luogo? Ragioni sentimentali o di qualità della musica?
«Verona è una bellissima città, l’Arena è di per sé un posto magico magico, concepito in passato per la musica. Tiene 12mila persone, ma ti sembra di toccarle, non è un posto dispersivo, grande ma anche intimo.
Le gradinate sono fatte in modo che ti senti avvolto».
A Verona hai celebrato un compleanno pubblico, poi ci sono state anche una o più feste private?
«Il mio compleanno era già stato annunciato da un bel po’ di tempo e sono venuti molti amici a trovarmi, quelli di sempre, ma anche colleghi, persone molto conosciute e amate come Baggio e Buffon, Guccini e Fossati, Nicoletta Mantovani vedova Pavarotti con cui ho un rapporto da anni per i progetti realizzati con il Maestro. Sono stato contornato da persone comunque tutti amici, con cui ho un feeling».
Cinquantasei anni, di questi quaranta passati in musica. Hai venduto 40 milioni di dischi. Con “Chocabeck”, Zucchero torna alleorigini del paesello italiano proponendo storie di nonne e di vendemmie. E’ un album nostalgico? Malinconico per un passato che non esiste più?
«No no. Non nostalgico, nel senso “stavo meglio quando si stava peggio”. E’ unalbum di memorie. Mi sono accorto che il mondo sta andando verso una direzione strana, critica, dove ci sono un sacco di guerre e un mal di vivere generalizzato. C’è poca tolleranza, sento un po’ di arroganza. Non c’è serenità. Ho sentito l’esigenza di ricordare i luoghi, i momenti, le facce, le persone che quando ero piccolo sono entrati nel mio cuore, compreso il paese, i suoni delle campane, la chiesa. Un quadro naïf, ma per stare meglio. Quando penso a quei tempi lì mi sento meglio. Anche se sono cambiati, cerco sempre di portare in giro con me questo piccolo mondo, un po’ come il piccolo mondo di Guaresschi dove c’era il prete che abitava di fronte a casa nostra e aveva opinioni opposte a mio zio, che era più di sinistra. Si sfidavano tutti i giorni su ideologie diverse, ma poi la domenica mio zio lo invitava a pranzo, perchè il prete era là da solo e si volevano molto bene. Dal punto di vista umano si aiutavano anche se avevano ideologie diverse. E vorrei che il mondo fosse un po’ così».
Il brano all’interno di “Chocabeck” che ti è costato più fatica scrivere e perché?
«L’inizio è sempre impegnativo. Quando ti metti a scrivere un album e dopo 15 album realizzati, non mi piace ricalcare. L’inizio è traumatico. E’ necessario cercare un suono e un concetto. Una volta trovati, le canzoni sono venute in fila una dietro l’altra. Ho scritto la musica e le parole. Una canzone l’ho affidata a Francesco Guccini, un poeta, una leggenda della musica italiana. Per le versioni inglesi ho avuto un testo stupendo da Bono. Poi altri due testi da Iggy Pop. Poi c’è Brian Wilson che canta in un brano che dà il titolo all’album che è stato prodotto da due americani, i migliori in giro Don Was e Brendan O’Brien».
Quindi un album che parla tanto americano dunque. E’ stato pure registrato qui negli States?
«Si. E’ stata registrata a Los Angeles la prima parte. Poi, i canti sono stati fatti in Toscana, a Bolgheri, e i mixaggi a Londra».
Bolgheri? Tra Los Angeles e Londra. Ma è un posto che nessuno conosce. Quale mistero?
«Ah, ah. Nessun mistero. A Bolgheri vive una signora che ha una villa con uno studio e delle stanze alloggio per i musicisti. Ma le dà solo a chi le rimane simpatico».
In un’intervista hai detto che “Chocabeck” è un album che parla di amore. Puoi spiegare meglio?
«Non necessariamente l’amore tra un uomo e una donna, ma parla di speranza. Ci sono canzoni anche ironiche e canzoni sui sogni di ragazzino, sulla fine della guerra, su un amico che non c’è più. In generale
parla di amore. Ecco».
Ho letto che lo spirito guida dell’album è Diamante, tua nonna. Che ricordi hai di lei?
«Nonna era una persona molto dolce e non era apprensiva. Non mi diceva “mangia di più, mettiti la maglia perché sudi, copriti che ti fa freddo, ti sei sporcato”. Semplicemente, mi portava a spasso nei campi raccontandomi le sue storielle. I miei lavoravano nei campi e sono cresciuto con nonna Diamante. Poi, quando mi sono trasferito in Versilia dal paesino di Reggio Emilia, ho sofferto perché non ero più con lei».
Beh, ma in Versilia ci sono bagnini molto particolari…
«Vero! Ma non sono come le nonne!»
Il brano capolavoro dell’album?
«Direi la versione inglese del “Suono della domenica”, quella con il testo di Bono, che è diventata “Someone else’s Tears”. E’ un pezzo che rimarrà e mi prende ogni volta che lo canto. E’ un brano dove lo stesso Bono si è commosso e mi ha mandato messaggi in cui dice di essere molto orgoglioso di averla scritta. Quindi, sono propenso a pensare che quella sia forse la canzone meglio riuscita».
Sarà tra il pubblico Bono per il concerto a New York?
«Non credo, è sempre in giro… Ma lo chiamerò»
Il brano più applaudito, ballato, amato dal pubblico durante il tuo tour?
«Sicuramente “Vedo nero” che è il brano più ritmico. Appena attacca, tutta la gente si alza in piedi e tiene il tempo con le mani. E’ un brano che invita a questo tipo di reazione. Ed è simpatico ed ironico».
Dalla Louisiana che ami per la musica, alla Lunigiana dove vivi in una fattoria. Essendo in giro per il mondo, come hai gestito la vendemmia quest’anno?
«Qui in Italia ha fatto caldo e abbiamo anticipato la raccolta all’inizio di settembre. Ma io sono riuscito a stare solo mezza giornata».
Che tipo di vino produci?
«Un vermentino rosso, un vermentino bianco e un rosato che porta il nome dei dischi. L’ultimo è proprio “Chocabeck”. Sono piccole produzioni, non ci si guadagna per vivere. Ma si trovano anche sul mio sito, tra il merchandising».
“Chocabeck” nasce come una reazione al mondo moderno, quello basato su internet?
«Sì, certo. Infatti, c’è un brano intitolato “Il suono della domenica”, fatto apposta perché non sento più il suono della domenica, se non in qualche paesino dove si sentono le campane. Per questo ho anche deciso di vivere in un paesino medievale sull’Appenino tosco-emiliano. La domenica una volta aveva un suono, per molti la domenica è un giorno come un altro in cui si passa il pomeriggio su Internet. pomeriggio su internet. Una volta si passava in piazza a discutere. C’era “accomunanza”».
Quali i momenti più importanti che hanno contraddistinto il tour iniziato in primavera?
«Il tour è partito il 9 maggio da Zurigo con due serate piene, da 15 mila persone a sera. E’ stato davvero un bell’inizio. Poi, c’è stata Rotterdam, pieno anche lì. Ricordo volentieri Londra, le sette serate a Verona e il
concerto al Teatro Greco di Taormina».
Sul palco siete in 11. Cioè hai allestito una vera orchestra. Come hai formato la squadra?
«A New York, ci saranno quattro musicisti americani tra cui Kat Dyson alla chitarra. Poi, tre italiani che sono con me da 15 anni e in aggiunta tre archi, viola violoncello violino. Tre ragazzi giovani che vengono dal conservatorio di Milano. Il concerto durerà due ore. Proporrò tutti i brani di “Chocabeck” e anche i vecchi successi, ma tutti riarrangiati».
A N.Y. proporrai l’album in italiano o quello in inglese?
«Sicuramente qualche canzone in inglese la farò, ma io tendo a cantare in italiano. Ho scopetto che il pubblico mi preferisce in italiano, forse perché è più verace».
Alcuni brani di “Chocabeck”, come hai sottolineato, sono stati scritti con Bono e Iggy Pop. Loro si sono limitati a darti una mano nella traduzione del testo o ci hanno messo l’anima?
«No, no. Hanno fatto proprio un lavoro nuovo. Non si può chiedere una traduzione letterale. Quella di Bono è una poesia ispirata dalla sua storia. Stessa cosa per Iggy Pop».
Tra le date del tour Americano ci sono luoghi come St. Catherines in Ontario e Collingswood in New Jersey. Luoghi che mi sembrano inusuali, piccoli centri soprattutto. Ti esibisci per raggiungere il maggior numero possible di audience?
«Avendo una grossa produzione e tanti musicisti sulla strada, non possiamo fare due concerti la settimana. Bisogna creare un tragitto logico, strada facendo suoni per arrivare in un posto più grande. E non sono serate da buttare via. Amo i teatri con poca gente perché sono intimi».