L’avventura americana del casertano Lino Puccio inizia con una domanda inaspettata: “Gli americani sovrappeso dove comprano le mutande?” Lungi dall’essere banale, questa riflessione ha aperto la strada a una visione rivoluzionaria nel mondo della moda, in cui l’inclusività diviene valore imprescindibile. Conquistato dal sogno americano da giovanissimo, dagli inizi degli anni Ottanta Lino ha percorso 35 anni di carriera come agente di commercio, trasformando i canoni estetici tradizionali e donando voce a chi la moda non teneva in conto.
Pur avendo ceduto recentemente il testimone nell’ambito commerciale, il futuro di Lino è ancora nel fashion, ma nei corridoi accademici, dove la sua eredità si farà guida per i nuovi talenti. Dal suo ufficio nel New York Fashion District, nei pressi di Times Square, che per decenni ha accolto addetti del settore, acquirenti e anche rabbini, ci racconta delle intuizioni che lo hanno portato al successo, nonché di inclusività e di etica, affermando con profonda convinzione che “alla moda non resta che essere democratica”.
Puccio, dopo gli studi all’Università ‘L’Orientale’ di Napoli, l’America.
Un sogno avverato, senza una chiara idea del futuro. Come per tanti, iniziai dai lavori saltuari: cameriere, commesso in negozio, badante, insegnante di italiano, ma anche di dialetto napoletano.
Di dialetto?
Sì, durante una serata all’Opera assistetti a un’esibizione di Torna a Surriento. Notai immediatamente che i movimenti del corpo e le parole del cantante erano fuori sincronia, quindi mi proposi come insegnante. Tra i tanti, ebbi molti allievi del rinomatissimo conservatorio The Juilliard School di New York.
Come è iniziato il suo percorso nella moda?
Viaggiando. Decisi di esplorare gli Stati Uniti in lungo e in largo a bordo dei Greyhound (leggendaria linea di autobus, ndr.). Ciò che mi colpì furono le persone plus-size, la stragrande maggioranza. In più, erano vestite male perché nei negozi mancava l’abbigliamento elegante e di alta qualità per le donne in carne. Nella stessa New York, dove in quel periodo si affermava il prêt-à-porter italiano, le donne dell’alta società acquistavano Gucci, Salvatore Ferragamo, Valentino, ma quelle con forme più morbide avevano poche opzioni.
Ha visto un’opportunità. Quale strategia adottò?
Contattai aziende italiane per sviluppare un modello di business che mettesse al centro la diversità delle forme del corpo. Studiammo insieme tessuti, filati e tagli speciali. Approfondii la robustezza del filo per la maglieria, tanto che un’azienda sviluppò un macchinario dedicato. Questo fu rivoluzionario, perché se un capo evidenziava zone critiche, come sotto il braccio, la cliente plus size non lo acquistava.

Agli inizi degli anni Novanta decise di mettersi in proprio. Come sviluppò il suo metodo?
Fu un momento cruciale. Scelsi solo aziende disposte a seguire le mie direttive e promuovere le collezioni in un modo nuovo. Organizzai trunk shows nei Country Club e nelle boutique più esclusive degli Stati Uniti, creando un legame diretto con una clientela selezionata. Parallelamente, introdussi seminari nei grandi magazzini, come Saks Fifth Avenue, insegnando tecniche di vendita che unissero approccio tecnico e coinvolgimento emotivo. Ho sempre creduto nel direct marketing, utilizzando cataloghi inviati alle consumatrici per incentivare la partecipazione ai trunk shows e consolidare il consenso. Una delle chiavi del successo è stata proprio la visibilità.
Ha rivoluzionato il settore delle grandi taglie.
In realtà, è stato solo il punto di partenza. Poi ho pensato a tutte le tipologie di donna. Ad esempio, creare modelli ‘J sizes’ (la ‘J’ sta per Japan) per le donne asiatiche ha reso il capo pronto all’uso senza dover apportare modifiche, facendo sentire la cliente immediatamente rappresentata. È stata un’idea vincente.
Inclusività: un valore che può trasformare la moda?
L’inclusività non è solo una questione di taglie, ma di rappresentazione e identità, che risponde alle esigenze di una società sempre più diversificata. Da anni il tema è centrale, ma la strada è ancora lunga: senza un cambiamento concreto nella produzione, molte categorie continueranno a rimanere ignorate e l’inclusività rischierà di restare solo un concetto di facciata, ridotto a una strategia di marketing anziché a una vera rivoluzione del settore.
Quali esperienze hanno influenzato maggiormente il suo percorso?
Gli studi in antropologia culturale e etnologia mi hanno permesso di comprendere il profondo legame tra moda e cultura. Un esempio significativo è stato il mio rapporto con la comunità ebraica ortodossa, vivace ma riservata. Le norme religiose possono sembrare un ostacolo per un settore in continua evoluzione, ma conoscere a fondo la cultura ebraica mi ha dato la possibilità di adattare il Made in Italy alle loro esigenze. Dalla lunghezza delle gonne ai volumi delle maniche, evitando i tessuti shatnez (combinazioni di lino e lana) e prediligendo solo fibre vegetali, ho rispettato ogni regola della Torah.
La moda come si è evoluta nel tempo?
Dagli anni Novanta, con l’ascesa delle top model, l’attenzione si è spostata sull’immagine, spesso a scapito dell’innovazione. Successivamente l’arrivo di Internet ha reso tutto più veloce e fugace, determinando una crisi identitaria nel settore. Trovo che oggi sia necessario reinventarsi per riscoprire autenticità e sostanza.
Il settore come può ritrovare l’equilibrio tra estetica e contenuto?
Deve evolversi verso una maggiore democratizzazione, integrando inclusività, sostenibilità e un approccio etico. Questo significa non solo garantire accesso equo e rappresentazione, ma anche investire in materiali innovativi, processi produttivi a basso impatto e strategie di consumo consapevole. Solo così la moda potrà costruire un futuro che rispecchi autenticamente i valori e le esigenze della società contemporanea, rimanendo al passo con le sfide ambientali e sociali.
Dove è diretto il suo futuro?
Porterò la mia esperienza nelle università, per aprire un dialogo con le nuove generazioni e trasmettere tutto ciò che ho imparato. Al momento collaboro con due atenei in Messico, un’opportunità straordinaria che mi ha già regalato stimoli e confronti preziosi. Il mio obiettivo è replicare questa esperienza in altre istituzioni, esplorando nuove prospettive.