Per chi non lo sapesse, questa è la ventunesima Settimana della Lingua Italiana nel mondo, l’iniziativa nata nel 2001 da una collaborazione tra l’Accademia della Crusca, la rete diplomatico-consolare e gli Istituti Italiani di Cultura.
L’italiano, la lingua dell’opera, della poesia, della letteratura, la lingua del buon cibo e della canzone. La lingua di un popolo con una ricca storia di esperienza migratoria. È pressoché impossibile avere dati certi sul numero di italiani nel mondo ma secondo l’Istat e il Ministero degli Esteri sono circa 50 milioni – tra espatriati e nati all’estero – gli italiani al di fuori dei nostri confini. Siamo dovunque.
E qui in America essere italiano ha (quasi) sempre voluto dire avere qualcosa in più, purtroppo non solo nel bene ma anche nel male.

Gli italiani piacciono, sono famosi, sono simpatici e puoi stare sicuro che almeno quattro parole quattro le sanno tutti: pizza, ciao, bella e bravo. E New York non sarebbe New York senza la comunità di italoamericani: impossibile non incontrare quotidianamente qualcuno con un parente italiano. Quindi, per la settimana della lingua italiana nel mondo, me ne sono andata in giro per New York, fingendo di non parlare una parola di inglese, per raccogliere le reazioni della gente e vedere quanto sia fondamentale avere un cellulare con una buona rete dati e la batteria piena per sopravvivere!

Parto dal mio quartiere di Brooklyn, South Slope, mi infilo nella metro R e chiedo al bigliettaio “Scusi, parla italiano? Mi serve un biglietto”. Mi guarda due secondi, senza cambiare espressione, poi mi fa cenno di no con la testa, ed è chiaro che non è la risposta alla mia domanda ma sottintende “guarda, non ho capito una parola ed è anche inutile che ci riprovi”. Ringrazio in italiano, striscio la mia metro card e mi dirigo a Manhattan, Park Avenue, destinazione Istituto Italiano di Cultura, dove ovviamente tutti parlano italiano, compreso il personale straniero. Mi riceve il direttore Fabio Finotti che mi illustra gli eventi dedicati a “Dante l’italiano” on-line sul sito dell’Istituto da lunedì 18 a domenica 24 Ottobre. Parliamo un po’ degli “italici”, come preferisce definire italiani e italoamericani con un unico termine, e poi lo saluto per dirigermi a Grand Central. Lungo Park Ave mi infilo in un lussuoso albergo, il Loews Regency Hotel e chiedo all’usciere se parla italiano; mentre mi fa cenno di no con un piccolo sorriso, mi indica i concierges. Lei era occupata a digitare al computer a testa bassa, quindi mi riceve lui: “Salve, parla italiano?” Panico, sguardo fisso un po’ vuoto, lei smette di digitare, mi guarda, lo guarda, si guardano, lui torna a me e mi dice “I’m sorry”, io non mollo, “non c’è nessuno che parla italiano?”, indicando gli altri due concierges impegnati con altri clienti.

Macché, un altro no con la testa, sincronizzato. Saluto e me ne vado alle informazioni centrali di una Grand Central mezza vuota, dove di solito devi fare gincane per districarti in un formicaio di gente. Lo sportello circolare centrale è ormai mezzo digitale, ci sono computer al posto delle persone ma due operatori sono in carne e ossa. Mi rivolgo al primo: “scusi, parla italiano?”; “I wish!” Mi risponde in una piena risata. Non ho resistito, stavo fingendo di non sapere l’inglese ma l’esclamazione è stata troppo divertente… e ho riso con lui. Lo ringrazio e faccio il giro per passare all’altro, stessa domanda, e anche stavolta è un no con sorriso. Esco dalla stazione e vado alla biblioteca pubblica. All’ingresso qualcuno mi risponde “un poquito de español” ma non è la settimana giusta per quello, quindi salgo ed entro nello shop dove però l’elegante signora alla cassa mi rivolge a bassissima voce un cortese “I’m sorry” con un altrettanto garbato sorriso. Esco e decido di provare un ristorante italiano. Il più vicino a Bryant Park è Arno, sulla 38esima. Entro e individuo subito il proprietario: è seduto da solo ad un tavolo tondo per otto piazzato in disparte dalla sala ma a vista. Sta mangiando, indossa un pantalone elegante e camicia scura, corpulento, carnagione mediterranea, mi vede e mi fa cenno di avvicinarmi con la mano con fare più minaccioso che bonario. “Salve parla italiano?” “Se, un poco – mi fa molto serio – chevoi?”. Ah, penso io, ho trovato l’italoamericano, “e di dov’è?” “io sono de Portogallo”. La cucina italiana vende decisamente meglio di quella portoghese e quindi ha imparato male un po’ di italiano però non mi sono fermata a mangiare quindi non so dirvi come cucina.

Dopo l’italiano portoghese, decido di andare “a casa” e mi dirigo a Little Italy. Andando verso la metro, passo davanti ad un negozio, fuori c’è un ragazzo che fermo sul marciapiede sta chiacchierando con due signore. Mentre lo supero, pronuncia due parole in inglese, io mi fermo, mi giro, lui mi guarda e gli dico “sei italiano!”. Subito gran sorrisi, e come ti chiami, e che fai qua; lui si chiama Nicolò Riva ed è qui a New York solo per un mese con il suo multi brand pop up shop ‘Style Hunter Milano’, poi si sposterà a Miami e poi tornerà in Italia, quindi lui non vale per questa ricerca ma gli italiani scambiano sempre due parole quando si incontrano all’estero e così facciamo.

Finita la chiacchierata, la metro mi porta a Little Italy e mi faccio uno dopo l’altro: Alleva Ricotta & Mozzarella, Piemonte Ravioli dal 1920 e Ferrara, bar pasticceria dal 1892. Nel primo c’è un ragazzo italo americano, l’attività è di famiglia, sa qualche parola imparata dal papà di Avellino ma non si può dire lo parli. Dopo pochissime parole tirate fuori con grandissima fatica si arrende e passa all’inglese, riesce giusto a dirmi che però i loro prodotti sono originali e il “fiore di latte” è buono.
Nel secondo invece si parla messicano, Piemonte Ravioli resiste dal 1920 con qualunque gestione.

La terza, la pasticceria vecchia più di un secolo, ha un macchina ATM proprio all’ingresso che diffonde altissima Bésame Mucho cantata in francese, il personale è tutto straniero e nessuno parla italiano, solo il proprietario, che però non c’è. E allora esco e mi infilo nell’emporio accanto, con le statuine del presepio fatte a mano e le caffettiere in vetrina. Dentro, il signor Ernesto Rossi detto Henry, si illumina quando mi sente parlare italiano. Anche lui ci prova a dire qualcosa ma Henry ha più di 70 anni ed è nato e cresciuto dietro l’angolo quindi è italiano di seconda generazione. L’italiano, mi racconta in inglese, non l’ha mai saputo veramente. Lui sapeva un po’ di napoletano perché il papà era di Avellino (il 73% degli italoamericani ha origini del sud, 17% del nord e 10% centro) e quando ha provato ad andare a lezioni di italiano ha smesso quasi subito perché non riconosceva nulla di quello che sapeva lui. Mi fa sentire l’incisione di una canzone scritta da lui (in inglese) e poi prende la chitarra e me la canta live. Henry ha perso la moglie 6 mesi fa per Covid, è stato un piacere tenergli compagnia per un po’. Ma ancora niente italiano, nemmeno tra gli italoamericani. La verità è che negli anni Little Italy è stata praticamente inglobata dall’adiacente China Town e gli italiani/italoamericani si sono spostati verso altri borough, come Brooklyn, Staten Island, o addirittura fuori nel New Jersey o in Florida.

E allora riprovo con un luogo turistico, dove si è abituati a tante lingue: vado al MOMA. Il primo addetto appena entri l’italiano non lo sa. É imbarazzato, non tanto perché non sa la mia lingua ma perché capisce che non saprebbe come comunicare con me; “nessuno parla italiano?” e sempre imbarazzato dice no, chiede sorry e alza le spalle mentre allarga la braccia ma non mi arrendo, giro a destra e vado agli sportelli Membership. Chiedo di nuovo, stavolta accorcio i tempi e lo faccio in inglese e la ragazza reagisce tutta soddisfatta: “Yes, our manager”. Valentina Mangiameli è italiana quindi sì che parla italiano ma è l’unica nel museo. Ovviamente guide e alcune indicazioni sono multilingue ma il personale è raramente poliglotta. E se proprio conoscono un secondo idioma è molto più probabile che sia lo spagnolo. Chiacchiero un po’ anche con Valentina e poi decido di tornare verso casa. Torno a Brooklyn e vado a Bensonhurst dove si trovano market e ristoranti italoamericani. Un gruppo di signori fuori alla pasticceria Villabate Alba, appena hanno sentito l’italiano, si è messo subito a far domande: “E di dove vieni?” “E tieni i figli?” “E addostà a tuo marito?” È un miscuglio di Calabria, Campania e italiano in una grammatica mezza americana, a volte pensano o fanno finta di aver capito e a domande sul come, dove o quando, rispondono “eh si, si” ma nonostante l’assenza di italiano, si sentono italiani, ci tengono e ne sono orgogliosi. Se invece ci si sposta a Brooklyn Hieghts, sulla bellissima Promenade di fronte allo stupefacente dipinto dello skyline di Manhattan sempre diverso ogni volta che ci si va, tutti hanno fretta e nessuno si ferma a cercare di capire cosa dice la straniera che parla un idioma sconosciuto. Cercano di capire ma lo fanno continuando a camminare e tutti reagiscono allo stesso modo: gran sorrisi che accompagnano tanti “sorry”. Un ragazzo ha provato a dirmi qualcosa, ma evidentemente delle poche lezioni di italiano che avrà preso ricordava solo il fatto di averle frequentate; solo una signora si è fermata, si è messa la mascherina e a debita distanza mi ha chiesto in inglese cosa mi servisse. Le ho detto che volevo andare sul ponte di Brooklyn, gliel’ho mimato con le mani, gliel’ho ripetuto tre volte, alla fine si è arresa, si è scusata e se ne è andata. E una non mi ha filato proprio, ha tirato dritto come non ci fossi.

Risultato: nella mia esperienza di un giorno 8quindi presa per quel che è) non ho trovato nessuno che parlasse l’italiano a New York, neanche gli italoamericani. L’idea però che ci siano eventi culturali, sia a livello istituzionale come presso l’Istituto Italiano di Cultura che a livello privato, rappresentano comunque l’impegno a mantenere viva all’estero una lingua meravigliosa, ricca e articolata, colta e popolare, capace di trasformarsi in 20 dialetti (che non sono i semplici accenti americani). La lingua italiana è presente e celebrata a New York: dalla lirica alla cinematografia, dalle piccole produzioni teatrali agli eventi tradizionali, c’è interesse per la nostra cultura. La sfida è tenerne alto il livello.
“Imparare l’inglese è buona cosa, ma in aggiunta all’italiano, non in sua sostituzione” cit. Pino Caruso
Settimana della lingua italiana nel mondo. Dal 18 al 24 Ottobre. Eventi presso l’Istituto Italiano di Cultura.