Il Covid ha accelerato alcuni processi, già in atto da tempo, portandone a galla tutti i limiti.
In fin dei conti, Benedetto XVI, già all’inizio del suo pontificato, aveva parlato di “emergenza educativa” e papa Francesco continua sulla stessa linea.
Basti pensare che, anche prima del Covid, dovevamo misurarci con l’alto tasso di dispersione scolastica, con il divario sempre più crescente fra il Nord e il Sud, con una scuola che non era più un ascensore sociale.
Il tutto all’interno di una delegittimazione bidirezionale: a) dei genitori impediti nell’agire liberamente (e quindi consapevolmente) circa la propria responsabilità educativa a causa di una discriminazione economica; b) dei docenti sottopagati e bistrattati nell’esercizio della loro funzione all’interno della società.
Così la scuola statale veniva privata dell’autonomia organizzativa (da una parte) e la scuola paritaria della libertà (dall’altra parte). Ecco il tragico epilogo di una scuola preda di campagne elettorali, tesseramenti dei sindacati, spreco della burocrazia.
Un sistema avvitato su sé stesso ed incapace di risolvere le emergenze educative.
Così, negli anni, siamo passati di emergenza in emergenza umiliando la scuola nella sua massima espressione di “agenzia educativa”.
Sicché, ora più che mai, è necessaria una idea di scuola (in quanto elemento di sviluppo del sistema-Paese) nettamente diversa. Occorre intervenire con soluzioni semplici e chiare: senza quei giri di parole e senza glissare. La riforma sistemica dell’offerta scolastica è indifferibile.
Si tratta di partire da due punti essenziali:
- dare autonomia organizzativa alla scuola statale (sempre più necessaria per vincere la sfida educativa e didattica);
- dare libertà alla scuola paritaria (in un sistema appunto libero, ma non arbitrario) sotto lo sguardo garante dello Stato.
L’effetto da immaginare, così facendo, è l’innalzamento del livello di qualità del sistema-scuola: si potranno selezionare i migliori docenti abilitati, pagati e valorizzati, sia che insegnino nella scuola statale sia che insegnino nella scuola paritaria (un po’ come avviene nella laica Francia).
Allo stesso tempo occorrerebbe liberare il sistema scuola da interessi terzi che, si presume, se ne servono per i propri scopi: elettorali, di tesseramento, di guadagno, ecc..
La riforma che, ormai, sempre più cittadini desiderano riconoscerebbe alla famiglia la responsabilità educativa, senza alcun vincolo economico, avendo già pagato le tasse. Riconoscere alla famiglia una quota capitaria da spendere per l’istruzione dei figli, da declinare nelle leve fiscali esistenti, come convenzioni, deducibilità, detrazione, voucher, non farebbe una piega né in punta di diritto (d’altronde in tutta Europa è un sistema ormai consolidato), né in punta di economia: affrancando il tutto da letture del c.d. “senza oneri per lo Stato” (art. 33, co. 3, Cost.).
Dati alla mano dimostrano come un allievo non costa 8.500,00 euro, cifra che lo Stato spende in tasse dei cittadini, bensì circa 5.500,00: ciò vorrebbe dire miliardi di euro liberati alla morsa dello spreco.
Chiaramente una riforma di sistema come quella prospettata, benché scomoda, necessita della più ampia trasversalità politica al fine di non impaludarsi fra gli interessi dei partiti, dei sindacati, dei burocrati.
Ecco perché con Mario Draghi al Governo, con una composizione tendente all’Unità Nazionale, si può guardare con fiducia attese le premesse ed il coraggio manifestate per introdurre riforme di sistema nella direzione illustrata.
In questa chiave di lettura lo Stato potrebbe recuperare e valorizzare il ruolo di garante del buon funzionamento delle scuole statali e paritarie: quindi non più gestore unico (con la conseguente elargizione di posti di lavoro, ecc., tipica del mal costume politico un po’ come la sportula degli antichi Romani). Ne va, in primis, del livello di competenze complessive dell’intero sistema.
D’altronde il ruolo dello Stato dovrebbe essere sussidiario a quello che i cittadini, normalmente, compiono con la propria azione libera; il ché si tradurrebbe in capacità, di riflesso, a produrre reddito (non solo economico e patrimoniale) per sè e per gli altri con l’effetto di rinsaldare una sussidiarietà che da orizzontale diventerebbe circolare.
Obbiettivo di tal ragionamento è, quindi, il superamento della logica della c.d. sussidiarietà al contrario la quale da anni ha generato: – per la famiglia in quanto tale un pagamento bis scolastico (erogando più di 6Mld di euro allo Stato); – per i dirigenti della scuola statale, privi di autonomia organizzativa effettiva (vedasi leggi quadro sulla scorta della riserva di legge ex art 34 Cost.), una conduzione prettamente eroica poiché schiavi dei gangli della burocrazia.
In scia con quanto appena detto, c’è il problema collaterale dei sussidi non suscettibili di porsi come generatori di reddito (quindi come investimento moltiplicatore), ma di spesa corrente.
La logica dei sussidi (Draghi lo affermava già nell’agosto scorso) è, nel lungo periodo, un problema poiché favorisce improduttività economica, inefficienza e non coltivazione ottimale della competenza.
Richiamo doveroso, occorre ora, su San Paolo VI e Don Sturzo: la scuola, la libertà di scelta educativa ed una politica intesa come la più alta forma della carità al servizio dei cittadini sono insieme, in via essenziale, la chiave per contrastare fattivamente le iniquità generate e generabili dalle falle formative del sistema; su quest’ultimo passaggio, sempre in ordine alla questione della riforma sulla libertà educativa, pare doveroso un altro richiamo che calza a pennello rispetto al mondo storico come ci insegnano le finestre di Overton.
Teoria di Overton a parte, però, il Draghi pensiero (dell’intervento al Meeting di Rimini di agosto scorso) è perfettamente in sincronia con quanto sinora esposto: occorre ripartire dalla scuola ed investire sui giovani creando le premesse per un’Italia che ritorni ad essere protagonista in Europa e nel mondo con livelli crescenti di eccellenza.
Il Prof. Draghi, proprio nel discorso di agosto 2020, ebbe a spiegare che “I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e, se non si è fatto niente, resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri. La società nel suo complesso non può accettare un mondo senza speranza; ma deve, raccolte tutte le proprie energie, e ritrovato un comune sentire, cercare la strada della ricostruzione… Ma c’è anche una ragione morale che deve spingerci a questa scelta e a farlo bene: il debito creato con la pandemia è senza precedenti e dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani. È nostro dovere far sì che abbiano tutti gli strumenti per farlo pur vivendo in società migliori delle nostre. Per anni una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”.
Sulla scorta di tanto l’augurio, senza cromo-schieramento, è che intorno alla figura del Prof. Draghi possa collocarsi e radicarsi il rinnovato spirito unitario nazionale (nel legittimo districarsi dei ruoli parlamentari tra opposizione e maggioranza), soprattutto, con la partecipazione di quelle forze politiche che vogliono rendere concreti i principi innanzi affermati nell’ottica di alimentarci di una nuova linfa vitale come sistema-Paese.
Anche perché la nostra Costituzione da sempre indica la strada programmatico-politica, ciclicamente parlando quanto al succedersi delle legislature, sul piano delle riforme necessarie in termini generazionali a seconda dell’andamento della società.
Nei Principi fondamentali, infatti, possiamo prendere in riferimento gli artt. 3 e 9 della Costituzione laddove, giustappunto, non è riservata al ruolo statale l’offerta educativa ma la predisposizione delle migliori politiche normative per assicurare la rimozione delle condizioni ostative che, effettivamente, limitino lo sviluppo della persona (in dimensione individuale) nonché della cultura in termini d’insieme (in una dimensione collettiva).
Oltre alle enunciazioni dei Principi suddetti, vi sono poi due disposizioni della Costituzione che in ordine alla questione formativo-scolastica sin qui trattata giungono per donare la cornice ottimale: si tratta degli artt. 30, 33 e 34 con cui i Padri Costituenti vollero, espressamente, riservare ai genitori (estendendo ciò alla dimensione collettiva della famiglia) sia il diritto che il dovere di formazione, educativamente parlando, i figli in un sistema per cui l’istruzione fosse effettivamente libera ed equipollente tra quella pubblica e quella privata. Quindi non appannaggio esclusivo dello Stato centrale.
Chissà se con il nascente Governo Draghi il Parlamento italiano riuscirà ad ispirarsi ad un nuovo incipit riformatore nel solco che i Costituenti ebbero a tracciare per educare, formare e coltivare processi culturali generazionalmente efficienti.
Per ora non possiamo che crederci.
A Draghi l’arduo compito di far ripartire il Paese, prima di tutto, dal recupero del valore della formazione come scelta libertà e con libertà: necessaria precondizione per esprimersi al meglio come comunità. Pena la incapacità a competere come sistema-Paese con le altre eccellenze mondiali.
D’altronde se l’istruzione è il metro di misurazione del livello di libertà, è anche vero l’assunto opposto e cioè che la libertà è nell’istruzione.
Fidarsi delle nuove generazioni è imperativo, così come delle competenze di Mario Draghi.