La didattica a distanza non solo non è vera scuola ma non è neanche vera didattica. E’ un surrogato, come il caffè di cicoria in tempo di guerra. E’ uno stralcio dei contenuti dell’insegnamento tradizionale senza però i presupposti di essa: rapporto diretto e di interlocuzione con gli insegnanti, ambiente d’apprendimento, comunità dei pari. E’ una “non scuola” che accentua, invece di colmare, la distanza sociale (in senso proprio non in quello improprio usato per riferirsi al distanziamento fisico personale) e che riduce ai minimi termini l’impegno per l’inclusione dei più deboli.
Il diritto all’istruzione è (insieme a quello alla salute) il più importante tra i diritti sociali previsti dalla Costituzione. Chi più della scuola può sostenere la lotta alle disuguaglianze, favorire il c.d. “ascensore sociale” e, in generale, la crescita delle persone come “cittadini” e non come “sudditi”? In quale luogo più della scuola la Repubblica italiana può assolvere il dettato costituzionale di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3, 2° co. Cost.)? Non è un caso che uno dei padri della bella Carta fondativa della nostra Repubblica, il giurista Piero Calamandrei, considerava la scuola alla stregua di un organo costituzionale, svolgente una funzione statuale e non un mero servizio pubblico. Come il Parlamento.
“La scuola chiusa è una ferita per tutti”, ha giustamente rilevato il Presidente Mattarella, applaudito ma non seguito nella pratica politica. Perché, aggiungo, la scuola è il polmone culturale di una società. E solo le società totalitarie vivono senza cultura.
La chiusura delle scuole e la didattica a distanza (cosa diversa dalla “didattica digitale”, metodologia distinta ed integrante quella tradizionale, pensata e svolta attraverso strumenti digitali specifici e sulla quale in Italia, ovviamente, siamo molto indietro) hanno certamente aumentato la distanza tra gli studenti che erano avanti e quelli che erano indietro. Ma, paradossalmente, due aspetti positivi ad esse vanno riconosciute.
Nel quadro di un imprevedibile stato di necessità la didattica a distanza ha tenuto acceso, in un intrecciarsi di buone intenzioni (degli insegnanti, degli alunni e delle loro famiglie) e di inadeguatezze e confusioni (tecnologiche, professionali, di ruolo, di spazi vitali), un minimo di attività scolastica e di rapporto tra docenti e discenti.
Ma, soprattutto, la situazione determinatasi ha ampliato nel comune sentire la cognizione di come sia bella ed importante la “vera” scuola, la scuola in carne ed ossa con il cartello del suo nome all’ingresso, mettendo nel contempo in risalto (semmai ce ne fosse stato bisogno) le gravi carenze del sistema istruzione italiano, a cominciare dall’impoverimento del ruolo sociale subito dagli insegnanti.
Per il prossimo anno scolastico le nubi non sembrano dissolversi, a fronte delle uscite estemporanee e contraddittorie (in alcuni casi candide) della nostra Ministra e del lavarsi le mani in modo pilatesco del Ministero e dei Comitati vari di esperti in cui si è sostanziata l’elaborazione delle “linee guida” con le quali si è scaricato, in nome di una comoda (per il Governo) “autonomia”, ogni responsabilità sui Dirigenti scolastici. Principio che di per sé può anche essere considerato giusto se fosse accompagnato dal dovuto corollario della messa a disposizione delle risorse finanziarie necessarie. Cosa che, considerata anche la molteplicità delle competenze (statali per quanto riguarda l’assunzione dell’ulteriore organico necessario, provinciali e comunali per quanto riguarda l’ampliamento e la ristrutturazione dell’edilizia scolastica che si rende necessaria) appare tutt’altro che certa. Davanti al temerario ottimismo della ministra, anche oggi i sindacati confermano: se non si cambia, sarà difficile riaprire a settembre e si dovrà continuare con la didattica a distanza. La morte della scuola.
Ma ciò non deve sorprendere. E’ il risultato di una deliberata e prolungata inerzia, per usare un eufemismo, delle politiche governative in tema scolastico. Incongruenza tra “polity”, “politcs” e “policy”, direbbero gli studiosi anglosassoni. Incongruenza e inadeguatezza scientificamente comprovate, al di là del fumo delle parole, dalla scarsità di risorse finanziare che alla scuola italiana vengono destinate a far data dai sciagurati tagli della Gelmini e alla quale nessun governo, neanche quelli c.d. di centrosinistra, ha voluto porre rimedio. Qualche dato: nel 2017, l’Italia ha speso nell’istruzione il 7,9 per cento della sua spesa pubblica totale: ultimo in graduatoria tra gli stati UE, lontana dal Regno Unito (11,3%), Francia (9,6%) e Germania (9,3%). Riferita al PIL la spesa (3,9%) la pone al quart’ultimo posto in Europa, quasi un punto distante dalla media (4,7%) e tra gli ultimi dei 38 paesi OCSE.
L’epidemia Covid c’entra relativamente: ha accentuato i problemi ma, soprattutto, è stata la circostanza che ha messo in evidenzia che il Re è nudo. L’assenza di efficaci strategie (poche idee ma confuse) che tutti lamentano in vista dell’inizio del prossimo anno scolastico è soltanto la continuazione dell’assenza di strategia sulla scuola scontata in questi anni e che, a sua volta, deriva del deficit (intenzionale) di consapevolezza del ruolo strategico che la scuola riveste per la crescita della società. Crescita civile ma anche economica, perché solo occhi molto miopi non vedono che la spesa nell’istruzione e nella cultura (e non solo quella nella formazione) è un investimento che produce anche rilevanti ritorni economici. “Risparmiare nell’educazione significa investire in ignoranza” ha detto Eric de la Parra Paz, non un pedagogista ma uno specialista di risorse umane aziendali e di ottimizzazione commerciale.
Un altro aspetto che la chiusura della scuola e la didattica a distanza hanno messo in risalto (soprattutto a quelle famiglie che fingevano di ignorare) è l’insostituibilità della didattica in presenza e, di conseguenza, quanto sia delicato, difficile e indispensabile il mestiere di insegnare e, in senso più ampio, di educare (attività ancora più difficile).

Sgomenta, pertanto, la perdurante superficialità con la quale si affronta il tema della retribuzione degli insegnanti. Il ministro Lucia Azzolina il 28 giugno ha dato notizia di un incremento di stipendio (dal 1 luglio) per il personale docente, stimato mediamente in 68 euro, prevedendo che si sarebbe arrivati ad oltre 100 euro netti in più al mese con il rinnovo del contratto scaduto da 19 mesi (incremento contrattuale in vista nella misura di 33 euro?). La ministra ha inoltre postillato, che ciò è un giusto premio per la categoria in quanto la loro retribuzione è tra le più basse d’Europa.
La ministra Azzolina in realtà stava parlando non di un aumento degli stipendi degli insegnanti ma di un provvedimento fiscale, pubblicato in G.U. il 5 febbraio 2020, riguardante tutti i lavoratori dipendenti pubblici e privati. Non si capisce come la ministra sia arrivata alla quantificazione di 68 euro medi ma considerato che i 100 euro di maggiori retrazioni fiscali sono in parallelo all’eliminazione degli 80 euro del c.d. bonus Renzi (percepito da quasi tutti gli insegnanti e dal rimanente personale della scuola, titolari di reddito lordo inferiore ai 26.600 euro) si capisce che l’aumento in busta paga sarà, in gran parte dei casi, di soli 20 euro. Con il rischio che qualche lavoratore “incapiente” (che cioè ha già notevoli detrazioni fiscali, per esempio, a motivo del carico familiare numeroso e/o per alte spese mediche) si vedrà ridurre lo stipendio….
In merito si impongono almeno a due riflessioni.
Il precedente governo Conte, tramite il ministro Bussetti, si era già impegnato formalmente con le OO.SS (aprile 2019) ad un aumento nella misura di tre cifre. E chi aveva preceduto la ministra Lucia Azzolina nel secondo governo Conte (l’on. Fioramonti) si è dimesso proprio perché non aveva riscontrato nel resto della e delle forze politiche che lo sostengono la volontà di intervenire seriamente nel sistema scolastico investendo le risorse minime indispensabili (tre miliardi) comprendenti anche quelle da destinare ad un dignitoso incremento di stipendio dei docenti e di tutto il personale scolastico.
Sono anni che quasi nella sua interezza, destra e sinistra, il mondo politico si sbrodola con il lamento che i professori meritano l’aumento dello stipendio. E l’attuale ministra sembra continuare sulla falsariga. Non soltanto la prassi non è stata coerente con le dichiarazioni ma anche i termini usati non sembrano i più appropriati: non è corretto parlare di “aumento” ma semmai di “adeguamento” (parziale) alla media europea e degli altri paesi più sviluppati ed è sostanzialmente non utile riferirsi (o riferirsi esclusivamente) ad un presunto “merito” che, in astratto, potrebbe anche non esserci. Sarebbe più proficuo porre la questione in termini di “efficienza”: riconoscere che un giusto stipendio agli insegnanti (accompagnato da obbligo formativo e di aggiornamento) è il prerequisito del buon funzionamento del sistema scolastico.
Ma questo è un altro discorso.