Giornalista all’Huffington Post e inviato di guerra da oltre un trentennio, in Ai confini del mondo, appena uscito da il Mulino, Lupis ripesca esperienze personali di viaggio in venti tra isole e arcipelaghi a noi lontani e talvolta sconosciuti, raccontando come li ha vissuti, ma anche come il tempo e la storia li hanno trasformati.
Al lettore, che pagina dopo pagina non può che appassionarsi alla scoperta di mondi così fuori dagli itinerari del turismo di consumo, resta il piacere di scoperte inattese, «l’emozione di un’avventura “oltre cartina”» (per dirla con la quarta di copertina), dal Pacifico delle isole Marchesi all’Atlantico della Tristan da Cunha passando per le contese Curili e la desolata Nauru.
Le Storie da isole lontane del sottotitolo, riguardano “Puntini. Capocchie di spillo. Atomi della geografia mondiale. Piccoli mondi sperduti, lontano da tutto e da tutti, sparsi come manciate di polvere negli oceani del pianeta” (p. 13). Sono scogli nell’infinito degli oceani, più o meno consistenti, estranei alle rotte comuni, abitati da persone inevitabilmente “speciali” e visitate da sconsiderati che, come il nostro autore, alla banalità delle destinazioni consuete preferiscono l’avventura della conoscenza e della scoperta individuale.
Capita anche che in qualche “isola che non c’è” – per parafrasare l’intelligente brano musicale di Edoardo Bennato – per definizione irrilevante negli affari internazionali, la storia si presenti d’improvviso a chiedere un tributo di gloria o ignominia, distruzione e morte. Capitò a Sant’Elena, 122 km2 ancorati nell’Atlantico centro-meridionale, che Lupis narra anche come ultima casa del Bonaparte. Capitò alle Falkland (Malvinas per argentini e terzomondisti) nella primavera 1982: c’è una significativa foto di quei giorni che ritrae il passaggio di una pattuglia di incursori britannici davanti a un tranquillo ed esterrefatto pecoraio che pascola le sue Romney.
A quarantatré anni di distanza, quello scatto resta un simbolo di come la volontà di dominio dei governi possa sconvolgere gli angoli più remoti del pianeta, estranei ad ambizioni delle quali si ritrovano improvvise vittime in termini di perdite umane e ambientali.
Del meccanismo Lupis esprime un’eloquente testimonianza quando scrive di Ascension Island, abbordata grazie allo scalo di un velivolo della Royal Air Force (Raf) britannica con prua proprio sulle Falkland. Situata poco a sud dell’equatore a metà strada tra Brasile e Angola, “la montagna nell’Atlantico” come la chiama il giornalista, appartiene all’arcipelago che raggruppa anche le distantissime Tristan da Cunha e Sant’Elena. L’isola, 88 km2 di «decine di vulcani spenti, molto simile a Marte» (p. 156), da più di due secoli vive il destino che le ha assegnato il Regno Unito, uno stato che nella sua lunga storia ha invaso il 90% dei territori oggi sovrani e rappresentati all’Onu come documentato più di un decennio fa da Stuart Laycock in All the Countries We’ve Ever Invaded: And the Few We Never Got Round To.
Base nella Seconda guerra mondiale delle attività britanniche antisommergibile e di quelle statunitensi aeree, Ascension fornì qualificati servizi alle escursioni spaziali della Nasa, e fu base dei bombardieri britannici Avro Vulcan del Number 44 (Rhodesia) Squadron Raf nella campagna per il controllo delle Falkland.
Come effetto dell’uso strategico del minuscolo territorio, gli attuali 806 abitanti di Ascension – informa Lupis – non hanno diritto di residenza e figurano all’anagrafe come “visitatori temporanei”, interdetti dall’esercizio del diritto di proprietà su qualsivoglia bene immobile e candidati ad essere sloggiati dal territorio appena difettino di uno dei due requisiti che li ammettono alla qualifica di ospiti temporanei: un contratto di lavoro o lo status di bambini che non abbiano completato le scuole primarie. Essere nativi o aver lavorato nell’isola sino alla meritata pensione, non costituiscono titolo sufficiente per restare.
Datori di lavoro sono essenzialmente Stati Uniti (la base aerea, Wideawake Airfield, della United States Air Force, Usaf) e Regno Unito (la gestione della base, atraverso la Raf), per operazioni militari e di intelligence, con una piccola presenza dell’Agenzia spaziale europea. Questa ha mantenuto per anni una stazione di localizzazione del distacco dei razzi Ariane 5 dopo i lanci dalla Guiana francese (3.200 km circa in linea d’aria) di satelliti Esa per telecomunicazioni e osservazione scientifica, veicoli di trasferimento automatizzati per la Stazione Spaziale Internazionale, altro.
Con queste premesse, non dovrebbe stupire che Lupis commenti che ad Ascension «si può avere un’idea di come potrebbe apparire il mondo in un futuro distopico».
Decisamente meglio, al nostro Gulliver, sarebbe potuta andare con Socotra, isola di 3.580 m2 piantata al largo del Corno d’Africa in pieno oceano Indiano. In aramaico il nome sta per “isola della felicità” e tale Suquṭrā certamente sarebbe, visti lo splendente ecosistema e la natura pacifica dei circa 60.000 abitanti che ha in dote, se non ci fossero in agguato le tensioni di una zona che annovera, tra i turbolenti vicini Somalia, Yemen, Iran, Huthi.
Gli Emirati Arabi Uniti, in evidente sintonia con Israele bisognosa del libero transito nel confinante stretto di Bab el-Mandeb, fanno vigilanza armata, tra i preoccupati mugugni di tanti isolani. Lupis così sintetizza: «l’isola attende una risposta alla domanda che tutti si pongono: riuscirà a preservare la sua magia, o diventerà un altro campo di battaglia dimenticato?».