Un buon libro, quello curato dai proff. Castagna, Conte e Macrì, dell’università di Salerno – La guerra “giusta” e la pace da costruire -, perché prova a confrontarsi in modo equilibrato e a-ideologico con uno dei temi più divisivi del momento: la liceità delle guerre.
L’analisi multidisciplinare proposta al lettore parte da due acquisizioni condivisibili: può esservi guerra giusta, la pace va costruita. Tutto il contrario di quanto si agita nelle piazze da parte di movimenti politici e correnti di opinione pubblica apparentemente disinteressati a comprendere motivazioni e finalità delle guerre in corso, al fine di una corretta attribuzione di responsabilità e conseguentemente di un’appropriata uscita dai disastrosi effetti dei conflitti.
Per instradare il lettore su questo tipo di riflessione, gli autori hanno raccolto e ordinato i contributi di diversi accademici (tra gli altri Domenico Taranto, Davide Monaco, Carmine Napolitano, Angela Iacovino), in provenienza da specializzazioni come Istituzioni di Diritto pubblico, Filosofia teoretica, Teologia, Storia delle Dottrine politiche. Con la loro collaborazione si sono confrontati con temi come il diritto internazionale di guerra, il dialogo e l’ostinazione per la pace, la necessità della guerra, il pacifismo e la nonviolenza, il ruolo delle religioni. Una parte del testo guarda alla specifica realtà italiana, con particolare riferimento all’interpretazione del dettato costituzionale in materia di pace e di guerra. Non mancano riferimenti all’attualità come l’aggressione russa contro l’Ucraina e l’intelligenza artificiale, né approfondimenti su pensatori o personaggi della storia recente, da Simone Weil a Emmanuel Mounier ai papi Pio XII e Francesco.
Difficile, se non impossibile, sintetizzare il dibattito pluralista che prende corpo nel volume. Possono però evidenziarsi un paio di prese di posizione che attraversano coerentemente le duecento pagine di testo.
La prima riguarda l’atteggiamento che gli amici della pace dovrebbero mantenere nei confronti di quelli che Bob Dylan chiamò, in una celebre ballata del 1963: “Masters of War”: resistere, opponendo durezza a durezza, forza a forza, sempre avendo in mano il ramoscello d’ulivo. Uno dei curatori, Alfonso Conte, ricorda la parole pronunciate da George Bush nel 1990, all’indomani dell’obliterazione del Kuwait da parte di Saddam Hussein: «If history teaches anything, it is that we must resist aggression or it will destroy our freedoms. Appeasement does not work. As was the case in the 1930s we see in Saddam Hussein an aggressive dictator threatening his neighbours». Il negativo degli appeasement con aggressori e dittatori – splendida parola la “pacificazione”, peccato bolli d’infamia le democrazie per essersi fatte mettere nel sacco da Hitler a Monaco nel settembre 1938! – è anche nella frase che John Kennedy pronunciò in occasione della crisi di Cuba (ripresa dal prof. Conte) : «[it comes] a clear lesson: aggressive conduct, if allowed to go unchecked, ultimately leads to war».
La seconda, la necessità di mai deflettere dalla ricerca del mantenimento della pace o della sua restaurazione in caso di conflitto. Su questo ben si esprime Davide Romano, teologo avventista, citando il “realismo spirituale” di Mounier, che denuncia come l’irenismo dei cosiddetti pacifisti contribuisca obiettivamente alle politiche aggressive dei prepotenti del mondo. A tal proposito, l’autore richiama il pensiero del teologo luterano Dietrich Bonhoeffer: “la nostra condizione temporale impedisce di agire come se la forza brutale fosse assente dal gioco degli uomini”. Il che non significa arrendersi all’ineluttabile, ma al contrario rafforzarsi nello spirito e nella militanza per la pace giusta: “Lottiamo disperatamente contro la guerra, non accordiamole neanche un briciolo di complicità”.
In questo “lottare”, le persone di fede – il libro dà voce a un florilegio di tradizioni religiose – devono guardarsi dal nazionalismo generatore di guerra, in particolare da «quell’ingenuo patriottismo» che, come denunciò Simone Weil nell’anno della presa del potere di Hitler, altro non è se non prodromo del “disgustoso” nazionalismo aggressivo. E proprio il percorso interiore di Weil – ben riassunto e chiosato dal prof. Conte – riassume il dilemma di ogni pensatore onesto di fronte all’obiettivo della pacificazione nella giustizia: cosa fare se l’evidenza mostra che solo una guerra può generarla? La filosofa francese scriverà che, all’indomani di Monaco, «dopo una dura lotta interiore [… nonostante] le inclinazioni pacifiste [avesse sentito il dovere di] perseguire la distruzione di Hitler con o senza speranza di successo». La giovane Simone sarebbe finita a Londra, con France libre di De Gaulle.
La guerra “giusta” e la pace da costruire è frutto di un ciclo di seminari condotto al dipartimento di Scienze Politiche e della Comunicazione dell’università di Salerno. Quel laboratorio è arrivato alla conclusione, come riportato nella Presentazione del libro, che vi sia «la possibilità di legittimare la guerra come “giusta” [con] il concreto rischio di riproporre la dottrina dello Stato-potenza.» Sembra sfuggire ai curatori – forse perché nessuno di loro viene da studi politologici – che lo stato-potenza è una realtà non una dottrina, e che con quella realtà occorre fare i conti se si vuole un sistema internazionale stabile e pacificato nella giustizia.