Si chiama Leo Giannini, metà giornalista e metà detective. È il principe della cronaca nera all’Emiliano, testata storica di Bologna: un quotidiano a metà classifica per copie vendute, ma che mette in campo dei fuoriclasse. Funamboli che palla al piede non temono confronti con i giocatori celebrati di squadre più blasonate. Leo è un campione, di scrittura e d’intuito. Il suo naso lo porta a capire prima degli altri che cosa c’è dietro fatti e misfatti di sangue. Gli accade così anche stavolta, di nuovo protagonista del secondo giallo di Mauro Bassini: Il pesce piccolo, appena uscito per i tipi di Minerva a seguire il precedente Piombo ai giornalisti. Un volumetto di 112 pagine al netto che contiene sei cadaveri – in media uno ogni 18 pagine e spiccioli, mica male.
Lo scenario è inconsueto, all’apparenza distante dalle Due Torri. Un villaggio turistico a Nouadhibou, nord della Mauritania, non particolarmente chic e privo di shopping ma con alcuni punti a favore. Per esempio il panorama della Baia del Galgo con annessi e connessi: stesi al sole sui lettini si sta d’incanto, vitto (aragoste, spigole) e alloggio sono più che buoni senza strafare, perfino il latte di cammello nel chiosco è decente. Anche la compagnia è stimolante. C’è il direttore parigino di Les Sables, c’è un cuoco marsigliese che ha militato nella Legione straniera, c’è il tuttofare napoletano Mimmo simpatico e un po’ cialtrone. Giannini è finito in quel posto tanto lontano dalle sue abitudini per una vacanza premio, vinta proprio grazie al mestiere che fa: sette giorni di assoluto relax sulla spiaggia tra deserto e oceano. La sua testa però non riposa mai. Nota e annota, fa domande e registra a memoria qualsiasi particolare. Il metodo d’indagine informale ricalca le cellule grigie di Hercule Poirot e quella conoscenza dell’animo umano che distingue il commissario Maigret.

Il luogo esotico non è un’invenzione dell’autore. Esiste davvero, come esiste il treno più lungo del mondo che tanto piace ai turisti in escursione: 250 vagoni trainati da tre locomotive diesel in sequenza. Trasporta per 600 chilometri minerale ferroso dal Sahara fino al molo, oltre ai viaggiatori clandestini attaccati alle maniglie esterne dei portelloni. È sulla battigia, durante una passeggiata mattutina, che il cronista inciampa su un omicidio: il corpo appartiene a un giovane nero, lavapiatti in cucina. È stato strangolato. Perché? Da chi? In filigrana si materializzano ragazze locali disponibili, rapporti omosessuali, caciotte ripiene di cocaina per allietare il soggiorno di Sua Eccellenza il presidente del tribunale. Ma la chiave del giallo è a Bologna, dove Giannini fa ritorno prima del tempo per sbrogliare la matassa. Ci riuscirà, anche se il colpevole non paga la sua colpa: l’ennesimo delitto senza castigo.
«Fare il giornalista è sempre meglio che lavorare», dice a un certo punto uno dei personaggi. Giannini replica senza sorridere: «Non è mica tanto vero. O fai questo mestiere perché ti piace, e senza contare troppo le ore di lavoro, e allora puoi essere pure contento della tua vita di fatica, sacrifici, rotture di scatole. Oppure fai il giornalista-impiegato, guardi spesso l’orologio, ti arrabbi a ogni imprevisto, a ogni contrattempo, e non sarai mai contento di te stesso, perché la frustrazione e l’insoddisfazione pesano molto di più della discreta busta paga che porti a casa ogni mese. Ma, credimi, questo non è il mio caso». L’essenza del romanzo, al di là degli eventi, in fondo sta in queste righe. È la vita di redazione con le macchine da scrivere di una volta, l’articolo da mandare a comporre in rotativa, la caccia alle notizie per battere la concorrenza, le burle in stile Amici miei, le notti in trattoria a chiacchierare davanti a un piatto di tagliatelle, il ritorno al giornale per la ribattuta mentre la città dorme, il finale di partita a tirar mattina con il poker.
La scena si riempie nel racconto di un universo provinciale talentuoso, vibrante di rapporti personali consolidati, che non c’è più. Storie finite per sempre. Travolte dalle straordinarie nuove tecnologie che annullano curiosità, legami e differenze. Giannini, il vicino di scrivania Franco Basilio, il capocronista Pierino Benetti, il giovane collega bersaglio di un perfido scherzo, l’inviato di guerra in Medio Oriente e nel Kosovo – è Marco Guidi, l’unico che nel giallo indossa il suo vero nome. E perfino il capo della Mobile, il poliziotto gola profonda, il medico legale e il magistrato di turno. Sono tutti personaggi e interpreti di un passato che è passato e non torna.
«Porto in giro i ricordi per non lasciarli chiusi nella mente», dice alla presentazione del libro Gianni Leoni. Un ometto con gli occhiali, piccolo e timido, che osserva inosservato. È a lui che s’è ispirato Bassini nel disegnare il suo alias letterario. È lui il nerista del Resto del Carlino, senza il fisico del ruolo, che dava del tu a Graziano Mesina (dominus sardo dell’Anonima sequestri), che riceve ancora lettere deliranti da Angelo Izzo (il mostro del Circeo), che ha diviso il vino con Pietro Pacciani (il mostro di Firenze), che ha raccolto le confidenze di Renato Vallanzasca (rapinatore omicida condannato a quattro ergastoli e 295 anni di carcere), che è stato minacciato di morte da Donato Bilancia (il serial killer dei treni).
Tutto assolutamente vero. Perché la realtà è certe volte più profonda dell’immaginazione e porta con sé la possibilità di essere normale, in un mondo di fake news. Pesci piccoli e pesci grandi. Era la stampa, bellezza: il resto è noia.