Nel 2001 la scrittrice Doris Lessing, allora ottantunenne, disse alla platea del Books Festival di Edimburgo: “Mi sorprende vedere come la spazzatura sconsiderata e automatica contro gli uomini sia diventata così comune nella nostra cultura da non venire neanche più notata”. L’episodio della grande scrittrice che tanto si spese per i diritti delle donne, è riportato da Annina Vallarino, giornalista e critico letterario, in fondo al suo Il femminismo inutile, 170 pagine appena uscite da Rubbettino, a sostegno della tesi enunciata nel sottotitolo del libro: vittimismo, narcisismo e mezze verità costituirebbero, anche prima di legislatori e moralisti misogini, i nuovi nemici delle donne. L’autrice sfida il neofemminismo a riconoscerlo e ad adottare metodi più giusti ed efficaci per tutelare le donne.
Tra gli esergo tutti al femminile della prima pagina, il libro riporta la famosa frase di Oriana Fallaci: “Le donne non sono una fauna speciale”. A completamento del concetto, le citazione rispettivamente da Christina Hoff Sommers (“Una delle principali caratteristiche del neo-femminimo è la sua tendenza all’egocentrismo”) e Olivia Nuzzi (“Se riguarda solo te, non è femminismo, è narcisismo”).
Sull’onda di quest’impostazione, il libro costruisce, attraverso una premessa, un’introduzione e 18 capitoletti politicamente scorretti, corredati da un notevole apparato di note e bibliografia, una teoria che punta a scuotere le fondamenta del femminismo di ultima generazione. Tra puntualizzazioni e ironia, Vallarino denuncia due comportamenti del movimento : (auto)vittimizzazione ed eccessiva concentrazione su aspetti che lei reputa marginali. Non si tratterebbe di difetti da poco, perché proprio ad essi l’autrice si appella per affermare che il femminismo contemporaneo ha smesso di emancipare le donne, spingendole, più o meno inconsapevolmente, in una condizione di sempre crescente passività, così fomentandone la regressione sul piano politico e culturale.
Il libro, attraverso citazioni puntuali da nomi eccellenti (è il caso di Judith Butler) e il racconto di avvenimenti e biografie esemplari (come quella di Suze Randall, prima fotografa di “Playboy” e “Hustler”) prova a demolire uno dopo l’altro i risultati di quello che reputa un femminismo sbagliato: i tribunali sommari seguiti all’invenzione del #MeToo, il narcisismo del femminismo performativo, il falso scientismo di espressioni come “mascolinità tossica” e “cultura dello stupro”, la negazione della biologia operata dalle correnti transfemministe e interesezionali, l’intolleranza delle “monopoliste” del pensiero e della parola al femminile. Proprio sull’uso delle parole, Vallarino costruisce molte delle sue pagine.
Guardando in particolare all’Italia, la saggista scrive della deputata Laura Boldrini e della scrittrice e poetessa Michele Murgia (quest’ultima citata, con il dichiarato senso di colpa legato alla recente scomparsa) rimproverandole di non distinguere tra parole e fatti, ad esempio tra aggressioni verbali sui social e aggressioni fisiche tra le mura domestiche, con un’equiparazione che allontana dall’azione per l’emancipazione, spingendo al lamentismo vittimistico. Le definisce femministe del tipo maternalista, “eccellenti nell’arte di modellare il loro esercito di donne spaventate e in cerca di una guida”. Le persone come Boldrini e Murgia, secondo Vallarino, “si ergono come bastioni protettivi, incarnando una nuova era di madri guida.” Il paradosso starebbe nel fatto che “mentre con foga denunciano il paternalismo degli uomini, esse stesse … replicano una retorica analoga.” Le nuove mommy, come le chiama l’autrice, forniscono “una figura materna rassicurante” funzionando come “un faro” nell’era dove “i follower sono sempre in cerca di un faro”.
È a Boldrini che l’autrice dedica la stoccata più ficcante: “Che un onorevole, donna di Stato, inviti le ragazze a prendere parte a una campagna che sostituisce la giustizia con l’hastag è preoccupante. Ma si sa, in quest’epoca le politiche vogliono fare le influencer, e le influencer vogliono far politica e alla fine ci si incontra a metà.” Le due “campionesse dell’emancipazione femminile”, per concludere, “sembrano paradossalmente voler assoggettare le donne sotto un’altra forma di dominio: il loro”.
Nelle conclusioni, all’interno della logica del libro, Vallarino s’interroga sul modo più appropriato per garantire ulteriori progressi alla questione femminile. Constatata la “realtà inconfutabile” della frammentazione e polarizzazione del dibattito sui diritti delle donne, sostiene che lasciarlo preda di “ideologie rigide, dove le sfumature vengono spesso ignorate”, farà pagare alle donne un prezzo piuttosto alto. Le neo-femministe vanno quindi contrastate perché collaborano a far sì che “riemergano le concezioni regressive”. E questo, conclude, “è il precipizio verso cui stiamo attualmente scivolando”. L’appello del libro alle donne è di rifiutare di farsi rinchiudere nel recinto allestito per il gregge immaginario delle penalizzate dal genere, comportandosi da persone che quotidianamente praticano i loro doveri e rivendicano i conseguenti diritti, che nessuno o nessuna deve neppure immaginare di poter loro sottrarre.