Una delle componenti, erroneamente sottovalutate, dell’attuale scontro russo-ucraino, è quella religiosa. Così la riassume Anna Gianfreda, curatrice di un libro da poco uscito presso Rubbettino, Nazioni, religioni e chiese nel conflitto russo-ucraino: “emerge che oggi la fede religiosa nei Paesi a maggioranza cristiano-ortodossa sia principalmente una questione identitaria, tanto che fra il 1991 e il 2015 la percentuale di adulti che si definiscono cristiani-ortodossi è aumentata dal 37 al 71 per cento in Russia e dal 39 al 78 per cento in Ucraina”.
I numeri rivelano un paradosso perché, se l’identità politica è divisiva per sua natura, quella religiosa dovrebbe non esserlo, almeno quando si adora lo stesso Dio, come capita a tutte le confessioni cristiane. Il paradosso si spinge al punto che l’identità religiosa diventi fonte d’identità politica non solo opposta ad altra identità religiosa ma in vera guerra guerreggiata con essa. Si aggiunga, nel caso russo-ucraino che il riferimento va a confessioni egualmente cristiane, anzi egualmente ortodosse: dopo l’aggressione russa, una consistente parte dell’ortodossia ucraina ha rotto la comunione con quella moscovita che, con il suo “papa” Kirill, ha definito “santa” l’ignobile guerra agli ucraini.
Spiega il paradosso un’affermazione della stessa Gianfreda: “nell’Europa dell’Est, … i rapporti tra istituzioni civili e religiose e il ruolo dell’ortodossia cristiana, sia rispetto allo Stato sia alle altre chiese presenti sui vasti territori del continente, rappresentano un’interessante chiave di lettura giuridico-politica.”
Potrà stupire questa sorta di cesaropapismo d’antan in suolo europeo. La sua sopravvivenza diventa, però, comprensibile se si parte dalla diversità tra cristianesimo cattolico (ovvero universale, senza patria, senza base etnica e culturale) e quello ortodosso che invece fa una scelta etnocentrica che lo porta ad identificarsi nella nazione governata da uno “czar”. Patriarca e “czar” condividono la stessa ideologia nazionalista ed esclusivista, e instillano ambizioni imperiali al “loro” popolo. L’ortodossia contribuisce alla costruzione del consenso per il potere; questo contraccambia, non solo con privilegi fiscali e donazioni, ma riconoscendo il ruolo della gerarchia, alla quale attribuisce un’elevata collocazione sociale e politica.
Così, all’interno di una logica che in tanti potranno considerare aberrante, non vi è dubbio che il patriarcato di Mosca non solo abbia appoggiato l’avventura bellica del Cremlino, ma abbia contribuito fattivamente a costruire – a fini di consenso interno al regime, e di propaganda esterna che affievolisse la solidarietà a Kyiv – il castello delle “ragioni” ideologico-politiche russe. Si osservi che sul patriarcato la spinta motivazionale alla riappropriazione dell’Ucraina attraverso la violenza, ha funzionato sino al punto di non provare nessuna esitazione di fronte alla frattura che avrebbe generato nel fronte etno-culturale che da sempre separa l’ortodossia dalla cattolicità e dall’islam. Il che dovrebbe convincere su quanto ossessivo sia il peso del mito imperiale granderusso sulle gerarchie della chiesa ortodossa moscovita.
Come, con dovizia di documentazione e analisi anche filologica, il libro curato da Gianfreda mette in evidenza, tanta sedimentazione storica spiega il razzismo e la xenofobia (contro lo straniero; il migrante; le minoranze etniche, culturali, religiose, di genere) russi, insieme al rifiuto del sistema giuridico dei diritti umani naturali costruito nelle società aperte, presente anche nel multiculturalismo nato nella società russa con la glasnost di Gorbačëv.
Se mai a Mosca, come in tanti auspicano, dovesse darsi la resa dei conti tra passatisti e aperturisti, il confronto passerà anche tra questi due gruppi leader. Nessuna speranza che la gerarchia ortodossa si schieri con i secondi, spiega il libro, con il saggio di Gianfranco Macrì: “Nella mentalità ortodossa, non c’è spazio per il concetto moderno della laicità e della libertà di pensiero, coscienza e religione, come stabilito dall’art. 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e dall’art. 9 della CEDU”, la Corte europea dei diritti dell’Uomo. Aggiunge Macrì che per la coppia Putin-Kirill, CEDU e Consiglio d’Europa non sarebbero ormai altro che “una piattaforma usata per veicolare il ‘narcisismo’ di un Occidente che preferisce il gender al cristianesimo.”
Davvero difficile, in un contesto del genere, che la mediazione della Santa Sede, analizzata nel libro da Andrea Gagliarducci attraverso la categoria della “diplomazia fluida”, possa arrivare a qualche risultato concreto. Non resta, probabilmente, che ricorrere alla “preghiera come arma diplomatica”; il che, al non credente, potrà sembrare pochino assai.