Elio Cadelo è stato per decenni a capo della redazione Scienza e Ambiente di Giornale Radio Rai. Vanta una lunga militanza nella carta stampata, avendo collaborato con Corriere della Sera, Il Mattino, Panorama, Scienza Duemila, Epoca, ed è autore di numerosi libri, tra i quali Idea di Natura (Marsilio, 2008), Contro la modernità, le radici della cultura antiscientifica in Italia (Rubbettino, 2013), Il Mondo chiuso. Il conflitto tra Islam e modernità (Leg 2021).
Con simile professionalità alle spalle, Cadelo non teme di tornare con un terzo saggio su un tema piuttosto controverso, molto caro alle sue ricerche: il rapporto tra romanità antica e continente americano. Lo fece una prima volta quindici anni fa pubblicando da Palombi Quando i Romani andavano in America, scoperte geografiche e conoscenze scientifiche degli antichi navigatori. Si ripetè nel 2018 con “L’Oceano degli Antichi – I viaggi dei Romani in America” (Leg 2018). Ora propone un libro che, nonostante il titolo, Piante americane (e non solo ) nella Roma imperiale, niente ha da spartire con i tomi di botanica. Documenta in modo approfondito le tracce ritrovate in affreschi, mosaici, bassorilievi, statue (esposti in musei o reperibili in reperti archeologici in situ, in particolare case patrizie o popolari, basiliche e terme) dove sono rappresentati fiori e piante alieni alle colture italiche dei primi secoli cristiani, inevitabilmente importati da altri continenti. Per esempio: ananas, mais, cotone, zucca bottiglia o del pellegrino (Lagenaria siveraria), cocco, patata dolce, fagiolo, cetriolo. castagne cinesi.
Da decenni Cadelo torna su concetti che stanno alle fondamenta del suo modello di interpretazione storica e scientifica: i romani erano grandi architetti (quindi concepivano ottime imbarcazioni, adatte alla navigazione d’altura e transoceanica), e inesauribili commercianti (quindi scambiavano di tutto, e di tutto rifornivano un mercato vorace come quello di Roma imperiale). Non che l’autore voglia sminuire gli attributi più tradizionali con i quali si qualificano in genere gli antichi romani (prodi soldati, ottimi legulei e retori, bravi coltivatori, ad esempio), ma vuole sottolinearne altri, in genere dimenticati.
L’andar per mare verso le Americhe proveniva – nell’analisi proposta da Cadelo – dalla capacità di navigazione e da uno spirito mercantilista/finanziario che si alimentava di continui successi nei settori d’importazione ed esportazione che la strutturazione economica dell’impero sollecitava e premiava. Se le leggi e il senato consentivano a Roma di “reggere” il mondo conquistato, il commercio/finanza rendeva quel progetto sostenibile non solo sotto il profilo della struttura economica che sorreggeva l’impero, ma degli altrettanto necessari pace sociale e consenso.
Accadeva certamente con riferimento ai metalli (per la guerra e per le fabbriche e speculazioni private) necessari a supportare la smodata ambizione romana alla conquista del mondo cognito, facendo di Roma l’urbs incomparabile nella quale poco alla volta si trasformò. Ma altrettanto succedeva per la ricerca di spezie o sete delle quali le matrone, dopo averle apprezzate nelle stanze dove palato e vanità la facevano da padroni, non riuscivano più a fare a meno.
E così nel comparto vegetale, le cui importazioni erano stimolate sia dal gusto di Roma per il bello (le piante di ornamento), che per la soddisfazione del palato, in una società per lunghissimi periodi sofisticata e sfrenatamente esigente. Cadelo analizza una quarantina tra spezie, piante alimentari medicinali e allucinogene che, in base alle considerazioni che propone al lettore, in epoca romana avrebbero attraversato gli oceani transitando da un oceano all’altro, da un continente all’altro. Si tratta di affermazioni che troverebbero conferme nelle affermazioni di autori del tempo.
Forte di convincimenti maturati in decenni di studi e ricerche sul campo, Cadelo fustiga chi oppone alle sue tesi argomenti di scarsa credibilità, ponendo una domanda retorica sull’incredibile biodiversità della penisola italiana, ritenuta dai più un dato di natura, una sorta di dono degli dei e lari chiamati ad arricchire di piante e frutti la penisola e i suoi abitanti. L’autore trova in quella constatazione uno degli argomenti vincenti del ragionamento: la ricchezza di frutta e vegetali altro non sarebbe se non il risultato di secoli di importazioni antico romane di prodotti alieni alle prime tradizioni colturali peninsulari. S’avvantaggiarono in primo luogo di semi e piante d’origine mediorientale e dell’Asia di prossimità, quindi, grazie alla marineria romana, di flora in arrivo anche da territori atlantici. Gli agricoltori italici ebbero un bel daffare ad acclimatare e coltivare ma, come dicono le testimonianze, almeno nei casi documentati ci riuscirono.
Il libro si fa apprezzare anche per il corredo di foto, cominciando dal fregio riportato in copertina, tratto dal bassorilievo dell’Ara Pacis a Roma, nel quale si trova raffigurata Phoenix dactylifera, pianta di origine asiatica.