Cosa si potrà mai dire sull’8 marzo, “festa” che ormai fa venire l’esaurimento nervoso a tutte le femministe e – probabilmente – quasi tutte le donne? Che se serve una Giornata Internazionale delle Donne è perché – battuta logora ma veritiera – gli altri 364 giorni sono degli uomini, buone lì che vi abbiamo regalato anche le mimose. Oppure: che sarà anche esasperante ma serve per ricordarci le crude verità in cui viviamo, dai femminicidi continui (e l’Italia non è fra i paesi peggiori) ai gap salariali ai soffitti di cristallo alla cronica scarsità di donne nei posti di potere, che poi è l’unica cosa che serve per cambiare le regole (a patto che le donne al potere agiscano per le altre donne).
E poi si può dire anche, come fa Jennifer Guerra nel suo ultimo libro fresco di stampa, che il femminismo ormai è anche diventato un affare per chi lo vuole sfruttare. Guerra, scrittrice e giornalista 29enne, è da tempo una delle voci più innovative della riflessione sui molti volti e le molte conseguenze del femminismo in Italia.
Questo volume uscito per Einaudi il 5 marzo, giusto in tempo per la “festa”, si intitola Il femminismo non è un brand e in copertina ha un flacone di detersivo che dice “Usare in caso di pinkwashing”. Come il greenwashing è la pratica comune a tante aziende di fregiarsi di una qualche iniziativa ecologista per dichiarare il proprio impegno contro il cambiamento climatico (soprattutto se lavorano nel settore energetico), così il pinkwashing è la prontezza con cui influencer, aziende, brand di tutti i generi (si svaria dalla moda al cinema alle telecomunicazioni e chi più ne ha più ne metta) adottano temi, idee, iniziative “per le donne”. In buona fede? In malafede?
Il saggio (sono 150 pagine preziose) si divide in quattro capitoli che studiano gli intrecci fra femminismo, potere e neoliberismo, concludendo con ‘quattro inevitabili sviluppi del femminismo neoliberale nelle società di mercato”.
È che il femminismo fa comodo quando si vuole convincere del proprio impegno sociale. Succede continuamente. Qualche esempio – che non viene dal saggio di Guerra: le piattaforme di streaming hanno fatto fortuna creando storie di donne, rivolte alle spettatrici, che va benissimo se serve a cambiare le aspettative sociali, per carità, ma a volte sembra di vedere copioni scritti con le quote: bisogna parlare di x, y, z, più messaggio motivazionale e conclusione consolatoria (chi lo vuole vedere un film dove la protagonista perde il lavoro, viene mobbizzata, e alla fine resta a casa coi figli senza un briciolo di riscatto?) Una società di telecomunicazioni in Italia fa uno spot dove in un labirinto un lui trova l’uscita mentre una lei (presumibilmente collega) sbatte continuamente contro i muri. Però cerca di abbatterli… con una scarpa rossa col tacco. E così via; è solo qualche esempio, appunto. E nel processo geologico di cambiamento sociale, magari tutto ha una sua utilità.
Però il saggio di Guerra non è una “denuncia”, è un’analisi. Questo è il punto a cui ci troviamo, e nessuna/o vuole rinunciare alle piattaforme di streaming, ai telefonini e al diritto di comprarsi le Louboutin se ha i soldi e se le desidera (son quelle scarpe con la suola rossa). Magari anche un mazzetto di mimose, che profumano.
Uno degli assiomi che ci ha lasciato Michela Murgia è che non è utile fare il processo alle femministe che non ci piacciono. Per citare esattamente quello che la scrittrice sarda scrisse e disse in uno dei suoi ultimi post su Instagram, “Abitare la contraddizione è il metodo che include. Negarla o peggio, fare il processo a chi secondo noi la porta, significa togliere forza a tutte, perché nel femminismo in cui ci riconosciamo, senza contraddizione non c’è nessuna”.
Contraddizioni appunto, parte della nostra era. Il pinkwashing spesso sfrutta un trend e basta. Però scrive Guerra, “sarebbe bello se si provasse a sospendere un attimo il giudizio e a separare il comportamento individuale dai problemi sistemici”. Il problema sistemico è in primo luogo l’accesso difficile al potere. Sui comportamenti singoli ognuna fa i propri conti. “Se aspirassi alla santità mi sarei fatta suora, non femminista” conclude Jennifer Guerra. “Il femminismo non è una gara a chi si mortifica di più, […] è una festa. È il contrario della solitudine”.