Venerdì 4 novembre, alla Dante Alighieri di Roma, sarà presentato 33 ore: Diario di viaggio dall’Ucraina in guerra, in uscita da Vallecchi. L’autore del libro, Edoardo Crisafulli, è direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Kiev, ora spostato a Lviv, città che consente maggiore agibilità al suo ruolo istituzionale. Dopo i primi pesanti attacchi degli aggressori russi, Crisafulli fu evacuato dalla capitale, e riportato in Italia, salvo rientrare appena possibile e riprendere il suo prezioso lavoro da altra sede ucraina. Ha scritto di quei mesi, ad iniziare con l’arrivo alla frontiera moldava, e la prosecuzione verso l’Italia.
Il libro, un diario in presa diretta, con picchi di drammaticità e tenerissime pagine di piccole storie umane, racconta ciò che accade intorno e dentro l’autore, davanti all’ingiustizia dell’aggressione con il suo carico di morte e disperazione. Rispetto alle baggianate che si ascoltano quotidianamente dai sedicenti pacifisti (meglio i “pacifici”) che davanti alla ferocia russa invitano gli ucraini a lasciar correre e a smetterla di difendere la loro casa, le pagine di Crisafulli appaiono, in taluni passaggi, come un urlo di verità all’unisono con quello di un popolo che ha un solo torto: vivere alla frontiera occidentale della Russia.
Crisafulli, nel libro, giustizia diversi miti malsani, ad esempio quello della cosiddetta grande guerra patriottica sovietica, ovvero la vittoria nella Seconda guerra mondiale ottenuta da Stalin, al prezzo di 25 milioni di morti, 17 dei quali vittime civili (più del doppio di quelle militari!). “Sono i discorsi che, in Ucraina, vanno per la maggiore. Galleggiano come boe: se li cacci sott’acqua, perché non ne puoi più, schizzano in superficie subito: «Beati voi, italiani, tedeschi, francesi, che siete al sicuro dal 1945.»”
Non cercate un solo russo che sottoscriva una frase del genere: non lo troverete. Eppure, se paradossalmente avessero perso la Seconda guerra, i russi da 80 anni avrebbero una vita ben migliore: libertà, benessere, forse un ruolo nell’Europa unita. Ma i russi ragionano all’interno del meccanismo suggerito dal fanatismo nazionalistico: negano la fraterna alleanza tra Stalin e Hitler per spartirsi da compari l’oriente europeo, trascurano le decine di milioni di vite distrutte dal loro comunismo imperiale, coprono col silenzio l’Holodomor ovvero il genocidio per fame degli ucraini perpetrato da Stalin negli anni trenta del novecento, sostengono la follia criminale di Putin e Kirill nei confronti del popolo ucraino. Il fatto è che gli ucraini sono e vogliono restare liberi: i russi furono un popolo di schiavizzati sino al decreto di Alessandro II nel 1861, e mai si liberarono davvero del servaggio verso i capi civili e religiosi.
Il libro di Crisafulli, come nel sottotitolo, è soprattutto il diario delle riflessioni e delle esperienze di un profugo eccellente, anzi di un mezzo profugo – “sono un profugo a metà, come il Visconte dimezzato di Calvino: una casa, quella di Kiev, me la porto nel cuore. L’altra, a Rimini, è come una roccia, ci vorrebbe uno tsunami per portarmela via.” – che l’invasione russa colloca accanto a chi fugge dal teatro di guerra. Dai luoghi della guerra gli arrivano appelli e messaggi, e finisce per stare col corpo da una parte e con la mente e il cuore dentro i racconti che gli arrivano sulle bestialità che gli invasori compiono. Racconta gli stupri metodici, le aggressioni e i furti ai civili, le deportazioni dei bambini, gli assassini sadici. E, di contro, la resistenza dignitosa ed eroica del patriottismo ucraino.
Quando, alla fine dell’estate rientra nella sede di servizio, sa di ritrovare un paese martirizzato, fosse comuni, testimonianze degli eccidi, persone sofferenti per le efferatezze patite. Eppure nota: “gli ucraini resistono, senza sceneggiate e musi lunghi, nell’anormalità. Bazzicano come di consueto i caffè, i bar.” Osserva che “gli uomini scarseggiano. Quelli che vedi sono quasi tutti in divisa, pronti per il fronte.” Descrive il “lavoro certosino” della popolazione per salvare la cultura nazionale, “per proteggere le statue nei parchi, gli edifici”. Lviv compete con Odessa come capitale culturale della nazione: “I musei, i teatri, le gallerie d’arte hanno riaperto, nel rispetto dei protocolli di sicurezza. Pulsa di vita, questa bomboniera mitteleuropea, irradia speranza, ottimismo, volontà resistenziale.” Le ultime parole sanno di certezza e amore: “Non si faranno mai sottomettere, gli ucraini, la vinceranno questa infame guerra d’aggressione.”