Reagan. Il presidente che cambiò la politica americana (Mondadori 2021) di Gennaro Sangiuliano non è solo la biografia di Ronald Reagan, quanto un tuffo nel passato che ripercorre l’intero Novecento negli Stati Uniti. L’uomo che «vinse la Guerra Fredda senza sparare un colpo», come disse Margaret Thatcher, ebbe un ruolo cruciale nel crollo dei regimi comunisti dell’Europa Centrale e nella ricostruzione dell’Occidente. Diede forza agli americani e incarnò l’American Dream. E la sua storia è stata una delle molte nel solco del sogno americano. Ronnie era nato il 6 febbraio 1911 a Tampico, da madre anglo-scozzese molto religiosa e padre, Jack Reagan, irlandese, spesso alcolizzato, che gettò più volte la famiglia in miseria. L’Illinois rurale del tempo era tipico dei romanzi di John Steinbeck, che aveva scritto a proposito del poverissimo Midwest abitato dai bianchi evangelici.

La quotidianità dei Reagan era dura. Al sabato mattina la madre mandava Ronald e il fratello Neil Reagan dal macellaio a ritirare le frattaglie per il brodo serale. Il padre spendeva tutti i risparmi in alcol, ma il giovane Ronald ebbe tutto sommato un’infanzia felice. «Poteva andare avanti per ore da solo a giocare con i soldatini di piombo», ricordò poi Neil. Umile e volenteroso, da bambino era noto con il soprannome di “Dutch”. Negli anni Venti era uno scricciolo; gracile e di altezza sotto la media. Arrivò in seguito a un metro e ottantadue. Le estati il giovane Reagan le trascorreva a Dixon. Al Lowell Park era tuttofare in un sito turistico. Da bagnino una volta salvò settantasette persone. Poi scoppiò la Grande Depressione, che mise l’America in ginocchio.
Il PIL si contrasse del 9.4 per cento nel 1930, fino al venti cinque per cento nel 1933. Il quaranta per cento delle banche fallì. Anche Jack restò disoccupato. La moglie Nelle Reagan trovò miracolosamente un impiego come commessa. Quando a Ronald scrive Sangiuliano, «la miseria patita orienterà il suo stile di vita a una certa frugalità». Il suo eroe al tempo era Franklin Delano Roosevelt, di cui imparò i discorsi a memoria. Diplomato nel 1932 in economia e sociologia all’Eureka College, confessò in seguito: «non riuscivo a dire ad alta voce, nemmeno a me stesso, che volevo diventare attore». Reagan si diede dunque alla radio. Nel 1936 raggiunse i cento dollari al mese, che servirono ad aiutare la famiglia, dal momento che il padre dovette abbandonare l’impiego per una serie di infarti.
Poco dopo arrivò la proposta di Warner Brothers: duecento dollari alla settimana. E il soprannome “Dutch” andò in soffitta. La Warner lo assunse come attore per film di serie B. Allora era «un giovane disciplinato, capace di imparare in fretta i copioni a memoria, senza capricci e particolari ambizioni artistiche», scrive Sangiuliano. Nel 1937 debuttò al cinema con “Love is on the Air” di Nick Grinde. L’anno successivo girò otto film. Nel frattempo, conobbe la futura moglie. Anche Jane Wyman era attrice: i due misero su famiglia, ma si lasciarono qualche anno dopo. Nel 1941 morì Jack e nel 1942 Reagan venne dichiarato inabile a prestare il servizio militare a causa della miopia. D’altra parte, l’uccisione di un attore avrebbe destato clamore e indebolito lo sforzo bellico, pensarono a Washington. In seguito, entrò nella Screen Actors Guild, il sindacato nazionale degli attori.
Tuttavia, la carriera cinematografica stentò a riprende i ritmi del pre-conflitto. Presto declinò come attore, emergendo come leader sindacale. Nel 1957 il suo ultimo film: “Hellcats of the Navy”. Allora, i democratici volevano il giovane Reagan deputato al Congresso: era la stagione del Maccartismo. Nel frattempo, Reagan maturò un anticomunismo viscerale e conobbe la seconda moglie. Anche Nancy Reagan era attrice: «la mia vita è cominciata quando ho sposato Ronnie», disse anni dopo. La metà degli anni Cinquanta segnò la fine della carriera di attore per Reagan, che ottenne un contratto con la General Electric. «Si impossessa subito del mezzo televisivo, entra nelle case degli americani con il suo tono di voce convincente, adopera le parole semplici», ricorda Sangiuliano.

«Ronnie stringe mani, distribuisce sorrisi, barzellette e pacche sulle spalle. In otto anni incontra […] un milione di persone e questo fatto conterà eccome negli anni a venire». Si appellò al senso patriottico americano. E iniziò a parlare di inflazione, scuola, tasse, assistenza. Una palestra che lo preparò alla politica. Le tirate sulla libertà individuale e le sue condanne dell’invasività dello Stato piacevano al pubblico. «Stava diventando […] un’assoluta star della politica americana», scrive l’autore. «Del vecchio sostenitore democratico del New Deal e di Roosevelt non è rimasto più nulla; […] quello che sta emergendo è un leader liberal-conservatore». E di fatti, l’astro politico del momento era Barry Goldwater, il Senatore dell’Arizona che parlava di capitalismo liberale, ammantato da una retorica evangelica e post-maccartista.
La struttura ideologica del nuovo conservatorismo è basata su Edmund Burke ed è incarnato da Leo Strauss, questi, un collaboratore del controverso Carl Schmitt. La rivoluzione conservatrice era in atto da anni: nel 1955 uscì National Review di William F. Buckley, influenzato da Russell Kirk. Al movimento conservatore si aggiunsero poi Daniel Bell e Irving Kristol, fondatori di The Public Interest, nonché Norman Podhoretz e Pat Moynihan. Goldwater incarnava un nuovo conservatorismo. Il suo The Conscience of a Conservative era molto di più di una piattaforma programmatica. Era il manifesto culturale che lo consacrò alla nomination repubblicana nel 1964. Interprete della battaglia contro il Comunismo mondiale, ottenne l’appoggio di Richard Nixon, ma si alienò l’ala moderata del GOP di Nelson Rockefeller e George Romney. E fu d’ispirazione per e precursore di Ronald Reagan.

Il passaggio dal campo democratico a quello repubblicano fu «lento e meditato, fondato su basi culturali e visioni socioeconomiche che Reagan maturerà nel corso della sua attività di sindacalista e migliorandosi attraverso intense letture». Da Friedrich von Hayek a Ludwig von Mises, da Karl Popper a Milton Friedman. Nel 1964 Reagan fece il famoso discorso “A Time for Choosing”, definito da TIME come «l’unico momento brillante di una misera campagna» che vide la sconfitta di Goldwater da parte di Lyndon B. Johnson. Nello stesso anno Reagan sconfisse il dem Pat Brown (3.7 vs 2.7 milioni di voti), governatore uscente della California. Dopo che William Knowland e Nixon avevano fallito prima di lui, Reagan venne eletto al vertice dello Stato più popoloso d’America. Si presentò all’elettorato come cittadino e non politico.
«Le prime mosse sono più di propaganda che di sostanza: blocco dell’acquisto delle vetture di Stato, vendita di un aereo del governatore, taglio ai viaggi dei funzionari pubblici fuori dalla California», scrive Sangiuliano. Nel 1980, The New York Timeselogiò gli anni del governo Reagan: stabili e senza grossi scandali. Ma sebbene si fosse proposto come un campione del taglio delle tasse, quelle sui redditi aumentarono dal sette all’undici per cento. Reagan tentò tre volte la via per la nomination del GOP. Sconfitto prima da Nixon e poi da Gerald Ford, non si scoraggiò. D’altronde, Strom Thurmond, veterano al Congresso, glielo aveva detto. «Figliolo, diventerai sicuramente presidente, ma questo non è il tuo momento». Probabilmente, ricorda Sangiuliano, a sfavore di Reagan giocarono le sue frasi tipo: «non vogliamo i voti dei razzisti … non prendiamo i voti dei razzisti … non li vuole il partito».

Un punto, quello del razzismo, sul quale Nixon d’altra parte era stato più ambiguo. Il Watergate fu un disastro per il GOP. Dunque, la manna per i democratici, che conquistano la Casa Bianca. Jimmy Carter sconfisse Ford nel 1976, ma l’America all’estero era assente. L’invasione sovietica dell’Afganistan, le crisi petrolifere, la rivoluzione khomeinista in Iran, screditano un paese afflitto dal post-Vietnam. Il Comunismo sembrava vincere ovunque, dall’Etiopia all’Angola, dal Mozambico ai Caraibi, dall’America Latina a quella Centrale. Si diffuse l’ipotesi che l’unico modo per fermare Mosca fosse la guerra nucleare. L’America aveva bisogno di un leader in grado di affrontare quelle crisi. Isolato dal partito a pezzi dopo la fine di Ford, Reagan si rese conto che il suo più grande ostacolo era l’età, ma questo non gli impedì di candidarsi alla guida del GOP.
Prese ispirazione da una sua futura dirimpettaia che da oltre oceano aveva iniziato la rivoluzione conservatrice. Nel 1979 Thatcher vinse le elezioni in Gran Bretagna: il suo intento era riportare l’individuo al centro della società. A sbarrare la strada per la nomination a Reagan, tra i molti, George H. W. Bush, che aveva un curriculum di tutto rispetto. Ex ambasciatore a Pechino, ex direttore della CIA, eroe della Seconda Guerra Mondiale, tuttavia non aveva né la popolarità, né la capacità oratoria di Reagan. Ma il cowboy di Hollywood lo volle nel ticket presidenziale. Bush era più gradito di Ford dall’elettorato centrista. E fu campagna elettorale giocata su tematiche economiche. Con l’amministrazione Carter l’inflazione era passata dal sei al dodici per cento. Il dollaro era debole, le industrie automobilistiche, siderurgiche ed energetiche erano in fallimento.

L’America all’estero era debole. Reagan disse di essere l’uomo giusto. «La sua elezione alla Casa Bianca viene classificata come un’americanata di pessimo gusto», ricorda Sangiuliano. Sembra fargli eco Eric Hobsbawm: «Reagan, forse proprio perché era stato un attore hollywoodiano di secondo piano, comprese gli umori del suo popolo e la profondità delle ferite inferte al suo orgoglio». Nell’autunno 1980, Reagan ottenne il 50,7 per cento (43,9 voti), contro il quarantuno (35,5 milioni di voti) per Carter. Iniziò così la rivoluzione conservatrice in stile thatcheriano, ma i problemi per il Presidente Reagan non tardarono ad arrivare. Oltre la crisi di Grenada, uno dei primi atti simbolici della nuova amministrazione fu nominare la democratica Jeane Kirkpatrick (professoressa alla Georgetown University) ambasciatrice degli Stati Uniti all’ONU. E Sandra Day O’Connor, ex leader dei repubblicani al Senato dell’Arizona, la prima giudice donna alla Corte Suprema.
Dal profilo economico, venne inaugurata la stagione neoliberista. A fare da guida, le trickle down economics e la Curva di Laffer. Questa era nata su un tovagliolo al “Two Continents Restaurant” a Washington in un pomeriggio del dicembre 1974 da Donald Rumsfeld, Dick Cheney e Arthur Laffer. In sostanza, «un’elevata pressione fiscale, in sostanza, fa calare il gettito fiscale perché si determina un disincentivo al lavoro, un ostacolo agli investimenti […] e […] all’iniziativa d’impresa», ricorda Sangiuliano. Deregulation e liberalizzazione diventarono le parole chiave dell’amministrazione, basata sui dogmi di Friedman. Il taglio delle tasse di Reagan è stato il terzo più importante a livello quantitativo dopo quello di Calvin Coolidge e John Fitzgerald Kennedy. In antitesi rispetto ai principi del neoliberismo, l’obiettivo di tagliare la spesa pubblica è stato un fallimento totale dell’amministrazione Reagan. Sotto cui il debito federale triplicò, da 738 miliardi a 2.1 trilioni di dollari.

Al tempo gli Stati Uniti passarono dal primo creditore al primo debitore del pianeta. Ma Reagan avrebbe sdramatizzato: «Il debito pubblico è abbastanza grande da badare a sé stesso». Il banchiere Paul Volcker accomodò il debellamento dell’inflazione secondo il credo monetarista. Il carovita era al 12.5 per cento, otto anni nel 1980 e 4.4 otto anni dopo. Idem la disoccupazione, che nello stesso periodo passò dal 7.5 al 5.4 per cento. A fronte dei successi in politica interna, uno dei motivi per cui Reagan è ritenuto uno dei presidenti più amati di sempre, è il ruolo che ha giocato nel determinare la fine della Guerra Fredda. Reagan propose lo “Stratgic Defensive Initiave”, o Scudo Spaziale, che avrebbe dovuto intercettare e abbattere tutti i missili balistici con testate nucleari verso gli Stati Uniti. Di fronte all’Associazione Evangelica Nazionale, l’8 marzo 1983 definì l’URSS “impero del male”.
E nacque la Dottrina Reagan che prevedeva il sostegno con ogni mezzo di tutti i movimenti anticomunisti nel pianeta. Dall’Iran al Nicaragua, dai mujahiddin in Afghanistan, ai ribelli in El Salvador. Sconfitto Walter Mondale, Reagan vinse un secondo mandato. Era fiero della “Tax Reform Act”, grazie a cui la percentuale degli americani sotto la soglia di povertà scese dal ventitré per cento del 1980 al 12.8 del 1989. Quando nel marzo 1985 salì al potere Mikhail Gorbaciov in Unione Sovietica, Reagan capì di avere di fronte un alleato, non un nemico. I due vollero conoscersi e in novembre passeggiarono sulle rive del lago di Ginevra per le trattative START. Parlarono di un taglio del cinquanta per cento delle testate strategiche. Nel giugno 1987 Reagan pronunciò le famose parole «Tear down this wall». dalle porte di Brandeburgo. Tra Berlino Est ed Ovest, invitava Mister Gorbaciov a chiudere la Guerra Fredda.
In dicembre i due firmarono il trattato INF, che pose fine alla vicenda degli euromissili. Reagan stremò l’URSS con la corsa al riarmo: e la mandò in bancarotta. Il Muro di Berlino e i comunismi d’Europa crollarono nel novembre 1989. Con Reagan gli Stati Uniti si liberarono dalla sindrome da Vietnam. Gli americani tornarono a credere in loro stessi. Ronald Reagan ha cambiato la politica americana e gli assetti geopolitici. Non fece da solo, ma questo è un credito che egli può vantare in maniera particolare. Il crollo della cortina di ferro è anche merito suo. Nel 1994, cinque anni dopo l’addio alla Casa Bianca gli venne diagnosticata la malattia di Alzheimer. Nell’ultimo messaggio ufficiale alla nazione scrisse: «Ora inizio il viaggio che mi condurrà al tramonto della mia vita. So che per l’America ci sarà sempre un’alba luminosa davanti. Grazie amici. Che Dio vi benedica sempre».