Mentre la giornalista e opinionista Selvaggia Lucarelli non ha bisogno di presentazioni, il suo ultimo libro, Crepacuore, porta alla luce un fenomeno a cui spesso non viene dato un nome, una forma di droga e quindi di dipendenza: la dipendenza affettiva.
“Quando non eravamo insieme sentivo uno strano disordine emotivo, una specie di febbre, di sete che dovevo placare. Vivevo le mie giornate senza di lui come un intervallo, una pausa dell’esistenza. Mi spegnevo, in attesa di riaccendermi quando lo avrei rivisto. Ero appena diventata una giovane tossica, convinta, al contrario, di aver colmato quella zona irrimediabilmente cava della mia esistenza”.

Così Selvaggia Lucarelli descrive gli esordi di una relazione durata ben quattro anni in cui nulla, nella sua vita, ha avuto scampo: dal lavoro agli amici, l’ossessione per una storia che non aveva alcuna possibilità di funzionare, piano piano, ha intaccato tutto quello che la circondava. Perfino l’amore per suo figlio, che finisce trascurato tra decisioni imprudenti e un’asfissiante sindrome abbandonica: “Oggi, guardandomi indietro, faccio ancora fatica ad ammetterlo, ma la felicità di mio figlio, la sua sicurezza perfino, erano la cosa più importante solo in quei rari momenti in cui sentivo di aver messo la mia relazione al sicuro. L’unico pericolo che avvertivo come costante e incombente era quello che lui mi lasciasse per la mia evidente inadeguatezza”.
La donna ne esce con un cambio di prospettiva, cioè quando riesce a “spostare lo sguardo” come su consiglio di una terapeuta (agopuntura in questo caso) che a un certo punto consulta. In un’intervista al Corriere della Sera, la scrittrice ha spiegato la genesi del libro: “Era una di quelle cose che macinavo dentro di me da tanto tempo, questa vicenda si è chiusa molti anni fa: ai tempi mi ero appena separata dal mio ex marito, il padre di mio figlio. Ne avevo già accennato nei miei libri, sia in quelli più sentimentali come Che ci importa del mondo sia in quelli più ironici come Dieci Piccoli Infami. Poi è successo che davanti a un caffè Daria Bignardi, con la quale ci passiamo il testimone nelle Mattine di Radio Capital, mi chiedesse perché fossi a Milano. Ero arrivata per amore, risposi, e poi ero rimasta per guarire da quell’amore. Guarire non è un verbo consueto, abbinato all’amore. Lei era stupita che potesse essere capitato a una come me. Ne riparlammo in tivù a L’assedio e per me è stata una liberazione. Lì ho provato il desiderio di condividere questa esperienza”.

La prefazione del libro è scritta da Ameya Canovi, la psicologa protagonista di una delle sette puntate di “Proprio a me”, il podcast che Lucarelli a marzo ha lanciato, coinvolgendo per tutta la durata della primavera, migliaia di ascoltatori. Può parere un’iperbole accostare la dipendenza affettiva alle droghe, mentre invece nel 2013 è stata inserita nel Dsm-5, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali.

Abbiamo ascoltato il podcast mesi fa e letto il libro in questi giorni prenatalizi portandolo con noi nei nostri consueti giri a New York. È una lettura accattivante e veloce, che permette però di gettare lo sguardo sulle dinamiche dell’animo umano e quindi di soffermarsi, volendo nelle pieghe spesso inesplorate dei nostri desideri e bisogni, e può essere un punto di partenza per spostarci da dove non vogliamo più stare, cominciando magari anche noi, dallo sguardo.